Cari amici,
vorrei parlarvi di un disagio. Quello di chi, pur vivendo in una città, in un Paese, continua a sentirsi tagliato fuori, escluso, ospite indesiderato. Eppure quasi sempre insiste, perseverando in un desiderio di accettazione e riconoscimento che prima o poi potrebbe sortire l’effetto desiderato, quello della cittadinanza, dell’essere incluso e considerato finalmente parte integrante. È certamente il caso dei marocchini torinesi, così come di tanti stranieri che vivono ormai da decenni in Italia.
Amo Torino, forse perché l’abbandonai tanti anni fa per vivere nel sogno di Venezia, ritornandoci poi pieno di desiderio e voglia di recuperare il tempo trascorso lontano. Il capoluogo piemontese ormai non raggiunge i novecentomila abitanti e di questi almeno il 15% sono stranieri, ovvero nati non in Italia, o nati a Torino da genitori stranieri.
Torino è dunque accogliente? Diventata turistica, è promossa al visitatore senza menzionare minimamente la varietà culturale che la caratterizza: abitata dalle culture di tutta Italia e di tutto il mondo, esse vi si esprimono abbastanza liberamente, segnando il territorio, in maniera estremamente vistosa almeno in certi quartieri, come Porta Palazzo. Qui in particolare si può vivere l’esperienza di un viaggio senza prendere l’aereo: basta affidarsi ai profumi di menta o di cumino e penetrare nel cuore africano, marocchino, della città. I marocchini residenti sono ben più di ventimila e quelli che qui lavorano o transitano sono tanti di più. Chi li vede come cittadini? Di quanto riconoscimento godono, al di là dell’interesse di certi settori politici o sociali? Quando Chef Rubio ha scelto di condurre qui la sua popolare trasmissione ("Unti e bisunti”), sfidando il pregiudizio nel mettere in risalto come la cucina di strada a Torino sia prima di tutto quella marocchina, è stato ripetutamente aggredito nei forum online perché non aveva scelto piatti tipici torinesi. La stessa cucina (generalmente portata a simbolo di incontro culturale) è invece vittima di questa visione identitaria statica e anacronistica...
Di integrazione si parla anche troppo, di riconoscimento mai.
Un piccolo gruppo di torinesi, la maggior parte di nazionalità marocchina, ha dato vita negli ultimi mesi del 2014 a un’associazione che potrebbe rivelarsi innovativa, almeno nell’approccio. Bizzeffe, associazione per la valorizzazione della cultura marocchina torinese, nasce proprio per rafforzare nei marocchini torinesi e in coloro che apprezzano questa variante culturale di Torino un sentimento di riconoscimento e riconoscenza: per quello che si è, innanzitutto. Perché per essere riconosciuti è necessario attivare un processo di autostima. Apprezzare e far apprezzare la portata culturale della presenza marocchina in città: evidenziare le forme che assume, le esperienze che intraprende, a partire da un metodo semplice ed efficace, fatto di passeggiate di conoscenza e incontro con la realtà marocchina della città. Un’esperienza collaudata già con le visite nella Torino Migranda di Viaggi Solidali e approfondita da un’associazione di vicinato a Porta Palazzo (portamiapalazzo.it).
Così Bizzeffe (torinoecasablanca.blogspot.it) desidera porsi come veicolo di informazione e valorizzazione di tutto quanto viene fatto e offerto in città da parte degli abitanti di origine marocchina: con eventi, conferenze, mostre, concerti... E puntando anche all’aspetto linguistico, non secondario. L’arabo è la terza lingua parlata a Torino grazie ai marocchini. Ma non si tratta di arabo standard o classico, quanto di arabo cosiddetto dialettale, la darija (pensate che cambia persino l’accento se diciamo dialetto in arabo standard, dàrija, o in marocchino, darìja): un idioma in continuo mutamento, a differenza del più statico ed elegante arabo dei testi letterari o del Corano. Una lingua che non viene considerata tale neppure dai parlanti: gli stessi marocchini svalutano la loro darija come se fosse una parlata volgare e non meritevole di attenzione e si stupiscono quando si organizzano corsi di marocchino invece che di arabo classico.
Sulle questioni linguistiche si sta approfondendo in questi anni un dibattito piuttosto vivace e interessante in Marocco. Dal rifiuto, da parte del nazionalismo arabo anti-colonialista, della stessa lingua delle origini, il berbero, si è oggi arrivati, grazie a un vasto movimento berbero nonviolento, al riconoscimento di questo idioma parlato da almeno un terzo della popolazione, e tutte le scuole del Regno oggi vedono comparire, insieme alla denominazione in caratteri arabi, anche quella in berbero. Il francese, lingua del Protettorato e fino a pochi anni fa della diplomazia, dell’amministrazione e dell’Università, oggi è relegato a più stretti ambiti, lo si studia solo a partire dalla terza elementare e raramente con profitto, assumendo per lo più un titolo di lingua dei ricchi, utilizzata per distinguersi. L’arabo standard dello studio, dei mass media, della religione (in questo caso il classico del Corano) e del potere, domina apparentemente, lasciando però un substrato vivacissimo di darija, lingua araba parlata da tutta la popolazione con varianti locali più o meno vistose, a tutti i livelli, in famiglia come per la strada. E a scuola? È qui che il dibattito accende gli animi e dovrebbe coinvolgere pedagogisti oltre che linguisti. Noureddine Ayouch, presidente della Fondazione Zakoura Education, è uno dei più illustri intellettuali marocchini che osano infrangere il "tabù” dell’arabo standard, lingua veicolare dell’insegnamento. Alla domanda su quale sia la lingua del Marocco, lo studioso,  intervistato dalla rivista Citadine (n. 192, novembre 2013) risponde deciso: "È la darija, per il 95%; lo è pure l’amazigh (berbero), che è parlato dal 30% della popolazione, ma all’interno di questa percentuale la maggior parte parla anche darìja. Ci sono quindi due lingue ufficiali, ma bisognerebbe cominciare a insegnare, a partire dalla scuola primaria, nella lingua materna che è la darìja. Come si fa a pretendere che un bambino impari in una lingua che non parla? Da quando vede la luce e persino nel ventre materno il bebè ascolta suoni in darìja. Tutti i bambini pronunciano le prime parole e ripetono quanto ascoltano in darija e non certo nell’arabo classico! Quando fin dall’inizio della sua carriera scolastica gli chiediamo di esprimersi in un’altra lingua, che pur essendo arabo non è la lingua parlata, la stiamo destabilizzando”.
Emanuele Maspoli