Nell’autunno del 1943 alcuni gruppi di amici si erano dati alla macchia nella zona montagnosa dell’Abruzzo che circonda il lago di Scanno. I tedeschi avevano già messo guarnigioni nei villaggi, e proclami bilingui minacciavano la distruzione delle case e delle famiglie in cui avessero trovato rifugio prigionieri alleati. Tuttavia i prigionieri liberati l’8 set­tembre dal campo di concentramento di Sulmona continuavano a passare per i sentieri di montagna, si fermavano nelle case, proseguivano verso il Sud. E a me capitava spesso di essere scambiato per uno di loro. "Signoria, ti vuoi fermare? -mi domandavano i montanari (giù, ad Anversa, manifesti rossi annunciavano l’avvenuta fucilazione di un pastore che aveva dato qualcosa da mangiare ad alcuni prigionieri nella sua ca­panna)- Vieni a mangiare con noi un poco di pane e for­maggio. Noi amici degli Americani”. Io cercavo il migliore accento abruzzese per convincerli che ero italiano. Ma essi mi guardavano con incredulità, e quasi con rancore, come se avessi dimostrato di non aver fiducia in loro.
Desiderio di guadagno, in questa loro profferta? Ma i pri­gionieri, per lo più, non avevano un soldo in tasca. Desiderio di crearsi una benemerenza, di avere una «carta scritta», un indirizzo, da esibire poi agli alleati, da poter forse adope­rare come appiglio per avere un giorno il permesso di tornare a lavorare in America? Ma le carte scritte erano pericolose, il pastore di Anversa era stato fucilato proprio perché teneva in tasca un foglietto con alcuni indirizzi, e quindi nessuno poteva desiderare di averne. Il loro atteggiamento non dipendeva da motivi d’immediato interesse. Certo, non si poteva neppure spiegarlo come effetto di un vero convincimento politico. Essi capivano poco di politica interna, e ancora meno di politica internazionale. Comprendevano che Mussolini aveva portato grandi guai, che per questo cattivo governo tanta gente nel mondo era costretta ad ammazzare e a soffrire e a morire, che i tedeschi erano venuti a rubare e ad uccidere e che bisognava aiutare chi voleva sfuggire a loro. Ma al di sopra di tutto questo stava il grande, indifferenziato senso omerico del sacro diritto dell’ospite, dello xenos, che ha le cose contro di sé e che deve essere protetto.
In questo senso, l’umile popolo dei pastori e dei contadini italiani dette allora al mondo una prova di civiltà, che non dovrebbe essere dimenticata, accanto alle altre offerte dai par­tigiani e dai politici. Questa rivolta morale era anonima: anche in ciò si manifestava il suo disinteresse. Neppure diremo quindi il nome di quel paesetto d’Abruzzo, nel cui territorio era tanto vasto il numero dei prigionieri, rifugiati in casolari e in ca­panne e in grotte di montagna, che l’intervento dei singoli non poteva più bastare a sostentarli. Allora le donne che andavano a macinare il grano al mulino decisero di lasciare ciascuna, dal proprio sacco, un pugno di farina per il pane dei prigionieri. Il paese si tassò con una decima di nuovo genere, i piccoli abruzzesi dovettero sfamarsi ancora meno di prima, per evitare che biondi giovani della Scozia e negri giganti del Sud Africa perissero d’inedia nelle grotte della Genzana. E gli alleati, sì, riuscivano talora ad avere segnalazioni e a gettare rifornimenti con gli aerei : però quasi sempre i paracadute finivano nelle mani dei tedeschi. I quali, se avessero saputo come andavano le cose, avrebbero evacuato o incendiato il paese. Ma le donne continuavano tranquillamente a dare il loro pugno di farina.
Questa alta serenità femminile è stata una delle caratte­ristiche della reazione ai tedeschi e dell’aiuto agli alleati. Noi conoscevamo la fermezza delle donne italiane di fronte ai me­todi polizieschi del fascismo, agli arresti e ai processi e agli interrogatorii di loro stesse e dei loro congiunti. Ma potevamo credere che tali fossero solo le donne che erano riuscite a rag­giungere un alto grado di educazione politica, appartenessero esse a famiglie di operai "sovversivi” o di intellettuali anti­fascisti. Il periodo dell’occupazione tedesca ci ha insegnato di che cosa sono capaci le nostre donne, anche soltanto per uno spontaneo senso di difesa della vita e della dignità umana contro ogni prepotenza.
Non dimenticherò mai una madre di famiglia di contadini marchigiani, dalle parti di Fermo. Essa era una contadina, essa aveva un padrone: ma a nessun altro il titolo di padrona, di domina, sarebbe spettato meglio che a lei. Non regnava solt ...[continua]

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