Quando Roosevelt parlava, mio padre -quarta elementare e due dita mancanti della prima falange per un incidente su una macchina sgranatrice- lo capiva. Approvava entusiasta quando Fdr parlava di “monarchismo economico”. Lo capiva quando diceva che l’uguaglianza politica che ci eravamo conquistati in passato non aveva alcun significato di fronte alla disuguaglianza economica.
Bill Moyers, al Franklin and Eleanor Roosevelt Institute, 2007

Dalla seconda settimana di febbraio, dopo una stagione frenetica di dibattiti, caucus e primarie, la corsa per la presidenza americana si è ristretta a tre candidati.
Il vecchio guerriero John McCain ha ormai la strada spianata per la Convention Repubblicana, essendo riuscito a mantenere un’aura da “maverick”, nonostante il suo appoggio quasi totale all’economia “trickle-down” di Bush all’interno e alla guerra in Iraq all’estero, i cui critici lui etichetta come avvocati della “bandiera bianca della resa”.
Dopo essere stato dichiarato politicamente defunto l’estate scorsa, McCain è sopravvissuto a un gruppo di dieci candidati; una sfilata di maschi bianchi in doppio petto che faceva venire in mente la riunione di un consiglio di amministrazione su un campo da golf.
Rudy Giuliani, il “sindaco d’America”, è crollato come un castello di carte quando le preoccupazioni per il suo stile autoritario e la sua corruzione personale hanno eclissato il suo costante sventolio della bandiera dell’11 settembre.
Mike Huckabee, un predicatore battista di Hope, Arkansas -la città natale di Bill Clinton-, ha sorpreso molti esperti con le sue vittorie negli stati rurali e del Sud con una forte presenza evangelica, ma il suo fascino di “conservatore compassionevole” e il suo carattere affabile non prometteva di andare molto oltre la sua base fondamentalista antievoluzionista.
E il multimiliardario uomo d’affari Mitt Romney, ex governatore moderato del Massachusetts, ha buttato al vento una bella fetta del suo patrimonio personale cercando di rifarsi il trucco e presentarsi come l’erede di Ronald Reagan. E’ uscito di scena questa settimana, essendo apparso a molti elettori troppo mormone, troppo di plastica e troppo ammiccante, nonostante la promessa di “raddoppiare Guantanamo” e altri gesti da macho di estrema destra.

Appare evidente che McCain affronterà Hillary Clinton o Barack Obama nelle elezioni del prossimo autunno. In una competizione che ha elettrizzato gli osservatori e che ha visto una massiccia partecipazione per l’intensità e il simbolismo che la caratterizzano, i due candidati sono ora impegnati in una lotta per i delegati che, per la prima volta dopo più di una generazione, potrebbe continuare per mesi, fino alla convention democratica dell’estate. I loro sostenitori cercano “eleggibilità”, esperienza, determinazione e soprattutto l’impegno a garantire un “cambiamento” rispetto alla linea disastrosa degli ultimi sette anni.
La popolarità di Bush e Cheney continua a registrare un minimo da record; quattro americani su cinque ritengono che il paese si stia muovendo nella direzione sbagliata; gli scandali abbondano; l’economia va verso una penosa recessione e intanto, il mese prossimo, la guerra in Iraq entrerà nel suo sesto anno.
I democratici hanno l’opportunità di riappropriarsi di temi che una volta costituivano il loro cavallo di battaglia. Potrebbero martellare l’opposizione sul fatto che le compagnie petrolifere stanno registrando un record di profitti osceno; che la forbice tra i ricchi e il resto della popolazione si sta allargando a velocità crescente; che le infrastrutture pubbliche di questo paese sono in costante deterioramento, mentre il popolo mendica posti di lavoro con dignità. La maggioranza dei delusi, molti dei quali hanno smesso di votare negli ultimi anni, rimane in attesa del segnale che è in arrivo un reale cambiamento. La fame di una proposta culturale che vada oltre l’ingordigia e l’interesse individuale a breve termine spiega la grande partecipazione alle primarie democratiche e l’entusiasmo “alla Jfk” che si riscontra fra i giovani, attratti soprattutto da Obama per il suo eloquente messaggio di speranza.
John Edwards nella sua campagna si è fatto portavoce della necessità di affrontare il problema della disuguaglianza, con la sua critica delle “due Americhe”, dove inserimento e opportunità dipendono dalla condizione economica, ma non è riuscito a guadagnare un consenso sufficiente rispetto alle candidature storiche dei suoi du ...[continua]

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