I suoi riti non si toccano, nemmeno quando
tra i denti dell’idolo il sangue sgorga a fiotti
Garry Wills

Mentre entriamo nell’anno nuovo si attenuano i colpi dell’ultima strage avvenuta negli Usa; anche questo, ovviamente, fa parte del problema. Appena prima di Natale un ventenne affetto da turbe mentali ha imbracciato uno dei fucili d’assalto della madre -una fervente appassionata di armi- uccidendo metodicamente più di due dozzine di persone in una scuola elementare del Connecticut.
Venti delle vittime erano bambini di cinque e sei anni. Alla vicenda ha fatto seguito l’ormai familiare alternarsi di cordogli, fiaccolate, riprovazioni e strette di mano, come la scorsa estate dopo il massacro in un cinema del Colorado, due anni fa dopo l’attacco alla parlamentare dell’Arizona, le carneficine alla Virginia Tech e alla Columbine e i tanti episodi che in questa nazione armata fino ai denti ricorrono con una costanza nauseante.
Secondo la rivista "Usa Today”, le sparatorie in cui sono morte almeno quattro persone sono state 156 solo negli ultimi cinque anni; in scuole, uffici, fabbriche, chiese, centri commerciali e altri spazi saturi di bersagli umani ignari e indifesi.

Una strage ogni due settimane
C’è chi chiede una conta dei morti e dei feriti simile a quella che negli anni Sessanta ci spedì a casa i costi della guerra del Vietnam; potrebbe contribuire a mantenere vivo il problema nella coscienza nazionale.
I killer più famigerati -come quello di Newtown, che si è tolto la vita dopo averne stroncate diverse altre- sono quasi sempre ragazzi bianchi emarginati cui il nostro sistema psichiatrico frammentario e vergognosamente sottofinanziato non ha saputo andare incontro.
Vivono in sobborghi opulenti e pittoreschi dove le uccisioni a ciel sereno non sono previste, dove le scene di guerra con corpi veri e vero sangue sono "inimmaginabili”. Il loro finale kamikaze ci fa riflettere sulla "crisi della mascolinità” e sulla violenza dei film e dei videogiochi che i nostri giovani divorano beatamente e quantomeno con il tacito consenso dei loro tutori. Eppure le vendite natalizie di questi passatempi tossici sono andate bene, con il film di Tarantino -la sua ultima incursione nel sadismo adolescenziale- che ha chiuso in bellezza il botteghino di fine anno.
Lo shock passa; i nessi così chiari al momento del trauma si fanno vaghi. Lo strappo nel tessuto sociale viene vinto e rimosso. Gli innocenti della scuola elementare Sandy Hook sono stati sepolti, e la nostra attenzione stanca e sovraccarica può "passare oltre”, almeno fino a quando l’orrore tornerà a pietrificarci. Sappiamo tutti che la richiesta di limitare le vendite di armi di distruzione di massa nei Walmart locali verrà bocciata. Questo è un paese imbevuto del mito della frontiera e della violenza "redentrice”, come ci spiega Richard Slotkin nel suo importante studio Gunfighter Nation.
Contro l’etica della trincea e della fortificazione abbracciata da molti americani -a mo’ di vigilanti- la montagne di prove contrarie e il buonsenso non sono sufficienti: le armi ci fanno sentire sicuri; più ne possediamo, e più sono letali, meglio è. È una fantasia che si fonda sulla paura e viene alimentata e sfruttata dalla National Rifle Association, la lobby industriale che per una generazione intera ha posto il veto sul processo legislativo nei vari stati come a Washington. A una settimana dall’ultima carneficina, mentre ancora si celebravano i funerali, un portavoce della Nra ha avuto l’insolenza di dichiarare che la soluzione consiste nell’introdurre ancora più armi -in segreto o apertamente- nelle scuole e in altri siti frequentati quotidianamente.
Una follia che Garry Wills ha saputo ben descrivere nell’articolo "Our Moloch”, il suo cri de coeur apparso a dicembre sulla rivista "New York Review of Books”. I cittadini di Cartagine, che immolavano i propri figli al dio Moloch -come si narra nell’Antico Testamento- non erano poi così diversi dagli odierni fondamentalisti del secondo emendamento o dai loro favoreggiatori. Per questi americani, insiste Wills: "L’arma da fuoco non è un semplice strumento, un accessorio tecnologico, una questione politica o un motivo di discussione: è l’oggetto di un culto mantenuto in vita grazie ai sacrifici che richiede".
Per nostra fortuna a novembre è stato rieletto Barack Obama; il suo avversario, che strizzava l’occhio alla destra dura, ci avrebbe portati a risultati disastrosi sui fronti più disparati, incluso quello delle regole per la detenzione delle armi. Obama ha riportato una vittoria di misura eppure netta; un omaggio al buonsenso e alla moderazione. Ha ottenuto il mandato perché convinto che il governo è tenuto a fare la sua parte in una società complessa, fragile e interdipendente, come ha messo in chiaro prima delle elezioni, subito dopo che l’uragano Sandy si era abbattuto sulla costa orientale. La sua rielezione è anche la conferma che sono in atto alcuni spostamenti demografici irreversibili: il sempre maggiore peso politico delle minoranze, delle donne e dei giovani, sgomenti di fronte all’estremismo del partito repubblicano e aperti a un’agenda più sfacciatamente progressista nel secondo mandato presidenziale e oltre.
Obama ha assicurato che verrà data priorità al rinnovo del divieto sulla detenzione di fucili d’assalto, mentre al Congresso alcuni democratici "pro-armi” hanno espresso sdegno per la troppa facilità con cui una persona instabile può entrarne in possesso. C’è da augurarsi che il disgusto per la leggerezza con cui questa nazione ricorre alla violenza per risolvere i problemi -la stessa che ci ha guidati in quella tragedia che è stato l’Iraq- stavolta permanga, producendo riforme concrete contro un’opposizione spietata. Ad oggi, dopo Newtown, le morti causate da armi da fuoco sono state più di 400: una media di diciotto al giorno. E mentre indugiamo imbastendo discorsi, mentre ci distraiamo una volta ancora, Moloch reclama nuovo sangue.
Gregory Sumner
Detroit, gennaio 2013
(traduzione di Antonio Fedele)

Gregory Sumner è autore di Unstuck in Time: A Journey Through Kurt Vonnegut’s Life and Novels (NY, Seven Stories Press).