J. R. Rowlings, Harry Potter And The Deathly Hallows, London, Bloomsbury, 2007; trad. it. Harry Potter e i doni della morte, Milano, Salani, 2008, pp. 702, € 23.

Al contrario di quanto ritengono molti critici, Harry Potter non è un’operazione puramente commerciale, né una rimasticatura maldestra di tutta la letteratura per ragazzi precedente. La critica di molti esperti di letteratura per ragazzi che giudicano la serie un prodotto mediocre, quando non addirittura “televisivo”, e attribuiscono il successo di vendita a pure operazioni di marketing è fuori bersaglio: certo Harry Potter è costruito per piacere, ma la Rowlings è riuscita a farlo piacere per ragioni che non hanno nulla a che fare con gli sforzi pubblicitari della casa editrice (che avrebbe fatto lo stesso per qualsiasi altro romanzo promettente). Queste ragioni sono interessanti da indagare perché gettano luce sulle guerre culturali degli ultimi 30 anni.
La serie appartiene al genere fantasy e l’autrice ha palesemente letto Tolkien con attenzione, tanto che ne ha mutuato una serie di caratteri e situazioni. Per esempio, il nome con cui ci si riferisce al capo delle forze del Male è, in Harry Potter, il “Signore Oscuro”, che viene dritto dritto dal Signore degli anelli. Non solo, in questo romanzo la “Compagnia dell’anello” incaricata di salvare l’umanità comprende un nano, un elfo, un re in incognito e uno stregone: un’alleanza eterogenea, incerta, sempre a rischio di rompersi ma necessaria per vincere, esattamente come il gruppetto multietnico che affianca Harry Potter: un mezzo gigante (Hastrid), un lupo mannaro buono (Lupin) e un centauro (Fiorenzo). Lo stregone di Tolkien, Gandalf, sembra il modello su cui è costruito il personaggio di Albus Silente: ossessionato dalla segretezza anche verso i suoi amici e seguaci, lungimirante, grandissimo mago, in grado di sconfiggere qualsiasi avversario ma anch’egli bisognoso di aiuto per far trionfare il Bene. La Rowlings non viene da una cultura televisiva.
La prima ragione del suo successo, anche tra il pubblico degli adulti, è che Harry Potter è una serie pervasa di comicità: in un certo senso è la risposta, un secolo dopo, a Uno yankee alla corte di Re Artù di Mark Twain e si potrebbe intitolare “Un mago nell’Inghilterra di Tony Blair”. Chi ha letto l’inizio di Harry Potter e il principe mezzosangue, con il suo esilarante incontro fra il primo ministro inglese e il Ministro della Magia, non potrà dubitare del talento comico della Rowlings, tanto è convincente la sua satira della società inglese degli anni Novanta. Anche nella Gran Bretagna dei maghi ci sono i giornali-spazzatura, l’adorazione per le celebrità, i politici opportunisti e i professori incompetenti.
A mio parere, non c’è dubbio che il vertiginoso successo della serie era dovuto all’abile operazione con cui la Rowlings aveva rinnovato le storie di magia inserendole in un contesto originale, cioè in un mondo separato ma continuamente in contatto con la “normale” Inghilterra, con i suoi ministeri, le casette di periferia, i bulli a scuola e dei primi ministri un po’ tonti, costretti, occasionalmente, a ricevere la sgradita visita del Ministro della Magia in carica. Era proprio questa convivenza che creava le situazioni comiche o paradossali, perché Harry Potter frequentava una scuola per maghi che funzionava come una normalissima boarding school, con i compagni di classe simpatici o antipatici, i compiti da fare, i professori che terrorizzano gli studenti e quelli con cui ci si può confidare, il cu­stode sempre pronto a punire chi esce dal dormitorio, le vacanze di Natale e Pasqua, gli esami finali.
Il rapporto con la vasta letteratura inglese che aveva per tema le esperienze scolastiche del narratore è stato reinterpretato creativamente dalla Rowlings e Harry Potter ha la stessa ambientazione del nostro Giamburrasca, solo che deve studiare pozioni e incantesimi invece di matematica e storia e questo, naturalmente, crea situazioni comiche a ripetizione, basti pensare alla “Cura delle creature magiche” affidata al gigantesco Hagrid, imperturbabile allevatore di ragni cannibali, draghi sputafuoco, scorpioni velenosi, fratelli giganti fuori controllo e quant’altro.
Ora è arrivata la conclusione della saga del piccolo mago, giunto alla fine del suo percorso scolastico di sette anni con il romanzo uscito in Italia a gennaio. Si tratta di un massiccio tomo, assai più ambizioso e politicamente audace dei sei precedenti: Harry P ...[continua]

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