Un’attrice che ha calcato palchi importanti che scopre il volontariato, e di lì l’idea di coniugare questa nuova passione con quella del teatro; le sfide particolari nel mettere in scena con persone in condizioni difficili una rappresentazione teatrale... Intervista a Magda Mercatali.
Se Cechov, redivivo, avesse potuto assistere alla recita del suo atto unico (anzi “scherzo in un atto”) “Una domanda di matrimonio” da parte di un laboratorio multietnico, nel maggio scorso al Teatro Belli di Roma, sarebbe stato felice. Lui che aveva attraversato l’intera Russia -una Babele di lingue ed etnie- per arrivare nell’isola di Sachalin, la colonia penale su cui scriverà uno splendido reportage. Lo spettacolo messo in scena al opera della Casa dei Diritti Sociali, con l’adattamento e la regia di Magda Mercatali, e interpretato da nove studenti-attori-migranti provenienti da Mali, Senegal, Iran, Ucraina, Marocco, Ecuador, Capo Verde, Burkina Faso, è stato una delle cose più commoventi e al tempo stesso divertenti cui ho assistito a teatro negli ultimi anni. In questo meraviglioso vaudeville, tradotto in Italia negli anni Ottanta ma oggi quasi introvabile, Cechov ci ricorda che gli esseri umani passano la vita a bisticciare, e lo fanno spesso per un nonnulla, per un puntiglio, per un capriccio: altro che cose concrete come l’ìnteresse di classe dei marxisti o la libido dei freudiani! L’esperienza del Laboratorio teatrale di Casa dei Diritti Sociali è cominciata undici anni fa: in essa Magda Mercatali -attrice con un’importante storia di teatro e cinema alle spalle, insegnante volontaria nella stessa scuola- mette al servizio dei suoi studenti -ogni anno con gruppi di studenti diversi- una grande esperienza teatrale e drammaturgica, favorendo, oltre all’apprendimento della lingua, la loro integrazione. Negli anni scorsi ha rappresentato sulla scena, con felice temerarietà, opere diversissime tra loro, dai funambolici giochi di parole di Achille Campanile (ancora più surreali in bocca a migranti nigeriani o iraniani sbarcati magari un mese prima sulle nostre coste…) a una versione poliglotta dell’ Orlando furioso (dove si riprende l’idea che Orlando poté salvarsi poiché sapeva molte lingue) fino a un babelico e colorato Olimpo degli dei greci. Molti dei migranti attori della commedia giovanile di Cechov non sapevano una parola di italiano fino a poco tempo fa , alcuni sono sbarcati dai gommoni solo l’anno scorso, e all’inizio dello spettacolo si è proiettato il video dell’arrivo di uno di loro: sembrava il film di Garrone “Io capitano”! Ecco un caso in cui tutto il discorso sugli extracomunitari come “risorsa”, che può a volte apparire come una nobile ma astratta retorica, diventa un esempio concreto, tangibile e per certi versi contagioso.
Anzitutto ti chiedo due parole su come sei diventata attrice di teatro.
Ebbi un’illuminazione a sette anni. Nei primi anni dopo la guerra, ero in seconda elementare ad Ancona, e ci portarono a vedere a teatro “Sangue romagnolo” di De Amicis. Ne fui rapita! Pensa che la notte mi venne la febbre, per il tanto amore! Poi, a diciotto anni, venni a Roma e mi iscrissi all’Accademia d’arte drammatica, diplomandomi insieme a Giancarlo Giannini. Ebbi maestri illustri come Orazio Costa, Sergio Tofano, Giorgio Bassani... Per noi Vittorio Gassman, che veniva a curiosare alle nostre prove, anche per scoprire nuovi talenti, era un mito assoluto. Si procurò il mio telefono, anzi il telefono di una parente da cui abitavo a Roma, così un giorno mi telefonò. “Buongiorno, sono Gassman”, e io, convinta si trattasse di uno scherzo: “Se lei è Gassman io sono Eleonora Duse”, al che lui, tutto serio e un po’ risentito: “Senta, lei non è la Duse, ma io sono Gassman e la chiamavo per una parte da recitare nel mio teatrino all’Aventino”. Stavo per svenire...
Poi c’è stata questa importante esperienza dell’aver rigenerato il Teatro Belli, nel cuore di Trastevere.
Un’impresa un po’ donchisciottesca, ma con esito felice. Passeggiavo per Trastevere, sarà stato proprio il 1968, insieme al mio compagno (attore e regista) Antonio Salines, e vediamo questo teatrino in condizioni pietose, totalmente abbandonato. Quando scopriamo che ci avrebbero fatto un secondo ristorante “Meo Patacca” chiediamo un incontro con i proprietari, una singolare “Associazione di prefetti”, che si convinse a darcelo a condizione che avremmo sostenuto noi tutte le opere di restauro. Pensa che si trattava di un teatro glorioso, ci aveva recitato anche Petrolini, vederlo diventare un ristorante turistico ci stringeva il cuore. Così alla fine lo rilevammo, ma con assoluta incoscienza dato che non avevamo una lira. In rete si può vedere un breve servizio televisivo dell’epoca sul nostro restauro di allora (le pol
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