L'ultimo dei magnacucchi

in memoria

Una Città287 / 2022 ottobre

Intervista a Learco Andalò
Realizzata da Carlo De Maria

L'ULTIMO DEI MAGNACUCCHI

Il 1° ottobre ci ha lasciato Learco Andalò. Ci eravamo conosciuti intervistandolo sulla sua vicenda politica legata a quella di Magnani e Cucchi, i cosiddetti “magnacucchi”, antistalinisti eretici e fuoriusciti del Pci; era un fedele abbonato della rivista, e fu anche grazie alla sua collaborazione che riuscimmo a rendere fruibile, nell’emeroteca digitale della biblioteca Gino Bianco, la collezione completa di “Risorgimento socialista”.

Il 1° ottobre ci ha lasciato Learco Andalò. Ci eravamo conosciuti intervistandolo sulla sua vicenda politica legata a quella di Magnani e Cucchi, i cosiddetti “magnacucchi”, antistalinisti eretici e fuoriusciti del Pci; era un fedele abbonato della rivista, e fu anche grazie alla sua collaborazione che riuscimmo a rendere fruibile, nell’emeroteca digitale della biblioteca Gino Bianco, la collezione completa di “Risorgimento socialista”.

Riportiamo qui sotto un brano della sua introduzione al libro “L’eresia dei magnacucchi sessant’anni dopo” da lui curato e, di seguito, ripubblichiamo la nostra intervista “L’ultimo dei magnacucchi”.

Sullo “strappo” di Valdo Magnani e Aldo Cucchi e sulle vicende del Movimento Lavo­ratori Italiani (Mli) e Unione Socialista Indipendente (Usi) assai poco hanno scritto gli storici, salvo il contributo di Sergio Dalmasso, il convegno svoltosi a Reggio Emilia il 3-4 novembre 1989 e il volume pubblicato nel 1998 di Gozzini e Martinelli. Avviene così che, quando si leggono autobiografie o biografie di taluni dirigenti del Pci o del Psi, mentre le pagine sui magnacucchi sono bianche, nelle altre si nota lo zelo che mira a dimostrare che si sono comportati nel migliore dei modi possibili. Sulle "dimenticanze" direi che aveva ragione Foa quando restava stupefatto di fronte “alla cancellazione di ricordi sgradevoli (alcuni aspetti della realtà sovietica), oppure al disagio per avere cambiato varie volte le idee nel corso della propria storia e quindi di essere incoerenti. Ma ditemi chiaramente, cambiare idea non è la condizione per essere coerenti? Tutto sta nel come si cambia: se io dico di avere avuto sempre ragione sono un poveretto, se spiego che con il mutare del mondo è cambiata anche la mia testa comincio a ragionare. Ho torto?”.
Quando Magnani e Cucchi, nel gennaio del 1951, senza fare calcoli personali, decisero di dimettersi dal Pci con la loro schiettezza, lungimiranza e passione politica, non si preoc­cuparono della forza organizzativa e cominformista del Pci, del suo fidato alleato che era allora il Psi e delle organizzazioni collaterali. Coraggiosamente avviarono un’impresa pres­soché impossibile, e se lo fecero fu anche perché la politica ha talvolta delle ragioni che non si possono spiegare soltanto con la politica. Come è noto, le dimissioni vennero respinte dalla dirigenza nazionale e locale del Pci, che non soltanto li espulse ma avviò una massiccia campagna di accuse false e infamanti, tanto che, ricordando quel periodo la moglie di Ma­gnani, Franca Schiavetti, disse: "Nell’Italia degli anni Cinquanta ho provato lo stalinismo in un Paese democratico, lo stalinismo senza Stalin". L’Italia era al di qua della "cortina di ferro", quindi i "traditori" non potevano essere eliminati fisicamente, ma i comportamenti furono simili a quelli utilizzati altrove: insulti e accuse tanto infamanti quanto inventate. La campagna di "vigilanza rivoluzionaria" fu di una virulenza impressionante, il cui scopo principale era quello di impedire ai due "rinne­gati" di avere rapporti esterni e di isolare "due volgari agenti senza onore e senza principi", per “creare un’atmosfera irrespirabile per i provocatori” (Arturo Colombi), perché “dob­biamo farli odiare  da  tutti” (Antonio Roasio). L’animosità colpì anche i familiari  e i po­chi sostenitori; inoltre, in alcune circostanze, boicottò la debole organizzazione del Mli e dell’Usi. Cito due casi: nel 1952 un infiltrato riuscì a far saltare la presentazione della lista dei socialisti indipendenti alle elezioni amministrative della Provincia di Ferrara, nel 1953 un altro infiltrato con la frode impedì la presentazione della lista dell’Usi nel collegio di Como, Sondrio e Varese.
Si deve ammettere che la martellante azione di isolamento dei magnacucchi, inizial­mente praticata dal Pci, Psi e perfino dal Psdi, fu impressionante anche per i non aderenti al Partito comunista ed ebbe successo. Il cordone sanitario, costruito dal Pci attorno ai rin­negati "titoisti", ebbe l’efficacia di un interdetto medievale, arse come il fuoco che bruciava gli eretici. Certamente si può ritenere che, oltre ai limiti del movimento dei socialisti in­dipendenti, fu soprattutto lo sbarramento praticato dal Pci che impedì al­leanze con Unità Popolare (una formazione composta da ex-socialdemocratici e repubblicani) e che rese più sfilacciati i confronti culturali con una interessante corrente di idee come quella dei laici che ruotavano attorno al settimanale "Il Mondo".

Quando un giovane di sinistra, timido, avido di letture e curioso di politica, mise piede nella sede di un piccolo movimento, che predicava un socialismo democratico, antistalinista, indipendente da Mosca; l’ostracismo implacabile dei dirigenti e attivisti del Partito comunista verso i cosiddetti magnacucchi, trattati da traditori, rinnegati, spie. Intervista a Learco Andalò.
 
Come ti avvicinasti al movimento di Magnani e di Cucchi, all’inizio degli anni Cinquanta?
Vivevo in un paesino vicino a Imola, Toscanella, e studiavo a Urbino. Ero un ragazzo di vent’anni che leggeva di tutto; quando vedevo una rivista nuova subito la compravo, con i pochi soldi che avevo. Il primo numero di Risorgimento socialista, il settimanale dell’Mli, uscì il 16 giugno del 1951. Quando lo aprii, vidi che si parlava di questo socialismo autonomo e indipendente, non subordinato all’Unione Sovietica e nemmeno alla politica estera americana. Io non ero iscritto a nessun partito, però mi consideravo, se vuoi genericamente, di sinistra. Del resto, a Imola, cosa si può essere, con Andrea Costa e tutto il resto? Vidi che il Movimento dei lavoratori italiani aveva una sede a Bologna, città nella quale andavo spesso, soprattutto per usufruire delle biblioteche.
Arrivai allora in bicicletta all’indirizzo dell’Mli in Strada Maggiore 7, e quando entrai trovai alcune persone, la maggior parte delle quali erano ex partigiani che avevano combattuto con Cucchi durante la guerra di liberazione. C’era una fedeltà partigiana molto forte. Tieni conto che, almeno all’inizio, erano questi amici partigiani che andavano attorno alla casa di Cucchi a fare servizio di sicurezza, soprattutto di notte. Cucchi e sua moglie, infatti, avevano ricevuto tante telefonate di minaccia, dopo la rottura con il Pci.
Ero un po’ titubante, molto timido, abbozzai una frase: “Vorrei avere qualche informazione”. Capirono il mio impaccio e mi chiesero: “Vuoi parlare con Magnani? È di là”. E, così, mi trovai di fronte a Magnani e lui fu bravissimo, perché capì che ero un ragazzo con qualche difficoltà relazionale, e cominciò a farmi parlare, farmi raccontare, e poi alla fine mi disse: “Mi scrivi un articolo per ‘Risorgimento socialista’?”. E io scrissi il primo articolo per “Risorgimento socialista”, sulla situazione imolese.
Qualche mese più tardi, l’11 di novembre, ebbi il primo contatto vero e proprio con la base del movimento. Una corriera di iscritti all’Mli partì da Bologna per andare a Forlì, dove Magnani tenne un comizio.
Ovviamente nel mio paesello, la gente che mi conosceva mi fermava per strada e mi diceva: “Ma sei diventato un Magnacucchi? Ma come, questi sono il peggio del peggio, sono delle spie, ecc. ecc.”. Mi trovai di fronte a questo tipo di ostilità, di avversione… poveretti, li capisco benissimo, questa era l’informazione che avevano. Naturalmente, io rispondevo e difendevo le mie posizioni: “No, queste sono persone che hanno le loro idee, posizioni diverse, discutiamone”. E così via, ma non serviva a molto.
Siccome ero studente universitario, i militanti Mli della sede di Bologna cominciarono a dire: “Ma sai, tu non fai niente, vai e vieni quando vuoi: perché non tieni ogni tanto la sede aperta?”. E allora io, sempre più spesso, pigliavo e andavo a Bologna con la bicicletta, per tenere la sede aperta… e piano piano entrai, in questo modo, nella vita del movimento.
Sia Cucchi che Magnani erano emiliani, di Reggio Emilia. Non è un caso, a mio parere, che siano stati proprio due comunisti emiliani a rompere con lo stalinismo… Nella loro scelta, traspariva probabilmente l’eredità del socialismo autonomista otto-novecentesco, del riformismo storico emiliano-romagnolo... Sicurissimamente. Entrambi, infatti, erano di famiglia socialista. Di tradizione prampoliniana, ovviamente.
Hai nominato Risorgimento socialista… Questo nome richiamava un socialismo radicato nella comunità nazionale, non sottomesso ai diktat dell’Unione Sovietica?
Sì, il nome lo propose Magnani e, in un primo momento -secondo quanto ha raccontato anche Lucio Libertini- ci furono obiezioni:”Ma no, è vecchio, ecc. ecc.”. Davanti a queste obiezioni, lui ci parlò del Risorgimento: gli agganci che il socialismo italiano aveva con il movimento risorgimentale, con la storia d’Italia e alla fine tutti convenimmo che Risorgimento socialista andava bene.
A Imola, raccogliemmo un po’ di soldi e facemmo un abbonamento per la Biblioteca comunale, affinché il giornale potesse essere a disposizione di tutti. E, in effetti, Risorgimento socialista arrivava regolarmente, ma spariva subito nei depositi della biblioteca: non veniva mai esposto in sala di lettura. Il direttore della biblioteca era Amedeo Tabanelli, già sindaco di Imola. Benché militasse nel Pci, so per certo che non guardava con ostilità i Magnacucchi. Quando qualcuno gli chiese che fine faceva il giornale, rispose: “Neppure io lo vedo, secondo me non arriva”.
Il fatto è che nemmeno lui, pur essendo il direttore, aveva la forza politica di fare un’indagine interna: per tutto quello che avrebbe significato… E quindi si limitava a dire, con un filo d’ironia: “L’avranno messo fra i veleni”. Insomma, qualche impiegato della biblioteca aveva l’incarico, direttamente dal partito, di nascondere le copie. Il risultato è che oggi alla Biblioteca comunale di Imola è conservata la collezione di Risorgimento socialista più completa che ci sia in Italia... praticamente intonsa. Naturalmente, io l’ho consultata, in tempi recenti, e posso testimoniare che su alcuni numeri c’è l’indicazione scritta a mano: “imbucare ancora, imbucare ancora”…
Eh, ma questa è una vicenda perfino divertente…
Sì, è così. Avremo forse perso qualche voto a Imola, però abbiamo guadagnato una collezione di “Risorgimento socialista” pressoché perfetta… Con gli occhi di adesso è un fatto positivo, soprattutto per le ricerche storiche.
La tua famiglia era di tradizione socialista?
No, assolutamente no. Originariamente la mia era una famiglia di contadini. Poi, visto che mio padre non era più in condizione di lavorare nei campi, grazie all’iniziativa di mia mamma, che era una donna molto brava, molto intelligente, i miei genitori smisero di fare i contadini e pian piano misero su una piccola attività commerciale, prima come ambulanti, poi con un piccolo negozio a Toscanella. Mia madre sapeva fare la sarta e quindi vendeva stoffe, cuciva, sapeva fare di tutto mia madre… Devo aggiungere che quando entrai nel movimento di Magnani e di Cucchi, la mia scelta ebbe delle ripercussioni negative anche sul suo negozio.
A un certo punto i compagni comunisti smisero di andare da lei. Solo il segretario della sezione veniva in negozio. E anche quelli del Psi stavano buoni e zitti, legati a quello che era il Partito comunista e a quello che i comunisti dicevano. E mia madre mi disse: “Learco, ma dove sei andato a finire? Guarda che cosa sta succedendo”. Non se lo spiegava nemmeno… sai, lei aveva la terza elementare, anche se molto intelligente. Non capiva: “Ma perché fai politica? Tu devi studiare, metterti a lavorare”.
Per te, in effetti, quella con Magnani e con Cucchi, era la prima esperienza politica.
Sì, era la mia prima esperienza politica. Avevo alle spalle molte letture, ma non avevo mai fatto politica attiva.
Per me, fu un’esperienza molto formativa. Anche se durissima, per la solitudine che si viveva in ogni situazione. Non venivi compreso né a sinistra, né a destra, dal momento che gli aderenti alla Democrazia cristiana -travisando la realtà- tendevano a considerarti semplicemente un anticomunista, per avvicinarti alle loro posizioni.
Come si sviluppò la tua attività all’interno dell’Mli?
Come ti dicevo, cominciai a venire sempre più spesso a Bologna, per tenere aperta la sede. Si arrivò così alle elezioni del 1953, quando cominciarono a emergere alcune caratteristiche del movimento. Al momento di presentare le liste, ci accorgemmo che la maggior parte delle adesioni all’Usi erano di militanti che provenivano da varie formazioni politiche, con percorsi personali molto differenti. Ex azionisti, ex socialdemocratici di sinistra, ex Psi… o magari non iscritti ad alcun partito. Molto pochi, invece, provenivano dal Pci.
Sempre nel 1953 accadde una cosa strana. Una sera, mentre custodivo la sede, qualcuno si intrufolò e rubò l’elenco degli iscritti. E allora per me fu la disperazione, mi sentivo in colpa, temevo di perdere la fiducia che mi era stata accordata.
Chi aveva commesso quell’atto fraudolento? Sospettammo subito gli ambienti vicini al Pci; e in effetti, più tardi, nella veste di ricercatore, ho trovato prova di questo, negli archivi dell’Istituto Gramsci di Bologna. Ci stavano spiando.
Nel 1953 avvenne una cosa poco piacevole anche all’interno della Cgil. Non è vero?
Sì, nell’agosto di quell’anno cominciai a lavorare all’Inps di Bologna. Ovviamente, chiesi la tessera della Cgil. Però me la rifiutarono, senza chiarire le motivazioni. Cercai di parlare con i dirigenti sindacali e, a un certo momento, mi dissero: “Tu sei un Magnacucchi… forse non sarete spie della polizia, però siete sicuramente servi dell’America, ecc. ecc.”. Ma io, ostinato, ripresentai la domanda. Si continuò così per cinque o sei mesi, fino a quando un funzionario intervenne: “Mo’ basta, questo ragazzo ha ventidue anni, ma cosa potrà mai fare?”.
Qualche anno più tardi, nel giugno 1956, passò per Bologna il leader della Cgil, Giuseppe Di Vittorio. A quel punto ero già abbastanza noto in città, come dirigente dell’Usi. E qualcuno suggerì a Di Vittorio: “Fatti raccontare da questo ragazzo la vicenda che ha dovuto vivere per avere la tessera del sindacato”. E Di Vittorio, dopo avermi ascoltato con attenzione, esclamò: “Ma no, non è possibile… adesso questo ragazzo lo mettete nell’esecutivo della Camera del Lavoro”. E infatti, un mese o due dopo, sui giornali apparve la notizia che ero stato cooptato alla Camera del Lavoro di Bologna, perché rappresentavo una corrente minoritaria della sinistra, e così via.
Negli anni successivi cominciasti a fare anche dei comizi insieme a Cucchi e Magnani?
Comizi no, perché non avevo il coraggio di parlare in pubblico. Però certamente li accompagnavo. Lavoravo per organizzare tutto. Andavo anche a fare le affissioni. A parlare in pubblico, invece, ho cominciato solo nel 1956... prima di allora mi faceva paura, mi intimoriva.
Per la campagna elettorale del 1955 andai in Sicilia (erano elezioni regionali). Tieni conto che, in tutta la Sicilia, l’Usi aveva cinque sedi, alcune delle quali, in realtà, coincidevano con le case dei compagni. Non c’era prospettiva di eleggere nessuno al consiglio regionale. Immagina l’ambiente siciliano e tutto il resto… Era una situazione molto, molto difficile, però fare campagna elettorale aveva per noi il significato di un atto di testimonianza. Per muoverci avevamo una macchina scassata, che una volta si fermò anche, facendoci penare non poco. Montavamo il palco... e poi il comizio si svolgeva in queste piazze, che erano o vuote o piene di gente che ti guardava in maniera ostile. Una ostilità che, almeno in un caso, misurai direttamente sulla mia pelle. Eravamo a Misterbianco e, mentre distribuivo volantini, mi aggredirono e mi sollevarono di peso. Cucchi scese dal palco, bianco in volto e pronto ad affrontare la folla... era un combattente ed era preoccupato per me.
Nella seconda metà degli anni Cinquanta, sei diventato, per così dire, l’esponente di punta dell’Usi a Bologna.
Ero uno dei più assidui animatori della sede di Bologna. Almeno una sera alla settimana, assieme a pochi altri, mi incontravo con Cucchi a parlare dei problemi politici e di quant’altro. Nel 1956 ci fu un passaggio molto delicato per l’Usi. Se è vero, infatti, che il rapporto Kruscev e la denuncia dello stalinismo ci davano ragione sotto molti aspetti; nello stesso tempo, però, come movimento antistalinista vedevamo svuotata almeno in parte la nostra funzione, mentre il Psi guadagnava finalmente una posizione più autonoma rispetto al Pci.
La situazione intorno era cambiata e gli avvenimenti del 1956 imponevano una scelta. Del resto, il nostro movimento non si proponeva di diventare un nuovo partito, ma cercava piuttosto di costruire una area politica socialista che fosse autonoma e indipendente. Per quanto mi riguarda, decisi di seguire la posizione di Magnani, favorevole a un’alleanza elettorale con il Psi. Cucchi, invece, era contrario a un avvicinamento al partito di Nenni e preferì orientarsi verso il Psdi di Saragat. Non riusciva a dimenticare il comportamento tenuto dai socialisti negli anni precedenti, quando erano stati perfettamente allineati al Pci, anche nel sostenere le più terribili calunnie.
In quel frangente, nel tentativo di fare chiarezza, decisi di contattare tutti gli iscritti dell’Usi della provincia di Bologna… parlai con tutti e chiesi: “Cosa pensate di fare?”. E tutti, salvo tre o quattro (su circa cento iscritti), decisero di stare con Magnani, di puntare a un’alleanza con il Psi. Ecco, in quel momento, io pensai di aver fatto tutto quello che dovevo fare. E basta. Forse mi sarei preso una pausa dalla militanza attiva. Ma la notte del 5 aprile, verso le due, mi arrivò una telefonata. Avevo una stanza in affitto a Bologna. La padrona di casa andò a rispondere: “Siamo la federazione del Psi, vogliamo parlare con Learco Andalò”. Vado al ricevitore: “Veniamo a prenderti perché devi partecipare alla riunione che c’è stanotte per costituire l’alleanza socialista a Bologna”. E, in effetti, vennero a prendermi e io andai alla riunione.
In quel momento, volente o nolente, diventai l’esponente di punta per i socialisti indipendenti nella lista del Psi per le elezioni comunali di Bologna. Fu la prima volta che cominciai a parlare in pubblico. Dico subito che ci andò male, perché lo scontro politico era polarizzato tra Dossetti e Dozza, e non c’era spazio per altro.
L’Usi continuò a esistere fino all’inizio del 1957. E, in quei mesi, tra la seconda metà del ’56 e l’inizio del ’57, ci eravamo anche rafforzati, almeno a Bologna. Infatti, c’era qualcuno che aveva preferito noi al Psi. Avevamo aumentato gli iscritti: alcuni giovani erano venuti nell’Usi. Vendevamo anche alcune copie in più di “Risorgimento socialista”. Tuttavia, nel febbraio del 1957 ci fu il congresso nazionale dell’Usi e, in quella occasione, venne eletto un comitato centrale con l’incarico di stringere ulteriormente i contatti col Psi. Dopo molte discussioni si affermò la convinzione che l’Usi doveva sciogliersi, perché non avrebbe avuto le forze per sostenere una battaglia politica indipendente. In marzo, chiuse Risorgimento socialista. A livello nazionale, sei dirigenti dell’Usi entrarono nel comitato centrale del Psi; anche qui a Bologna entrarono nel direttivo provinciale del Psi alcune persone, fra cui io. E così cominciò una nuova storia. Io, però, ero stanco, molto stanco. E cominciai a partecipare alle riunioni del Psi senza più l’entusiasmo di un tempo, non mi sentivo più a mio agio.
C’erano tutti quei passaggi burocratici, bisognava fare i conti con i livelli gerarchici che caratterizzavano la vita interna di un grande partito. Finii per essere un assenteista, alle riunioni del Psi, almeno per un paio di anni. Ma a un certo momento, sentii di nuovo la voglia di impegnarmi e questo avvenne, nei primi anni Sessanta, durante il dibattito interno che portò alla scissione della sinistra socialista e alla nascita, nel 1964, del Partito socialista italiano di unità proletaria (Psiup). Decisi, infatti, di schierarmi contro la prospettiva del centro-sinistra, cioè l’alleanza di governo tra la Dc e il Psi di Nenni. Al contrario, da tempo, seguivo con interesse le posizioni di Basso e di Vecchietti. Entrai, dunque, con loro nel Psiup. Nonostante all’interno di quel partito ci fossero molti ex filocomunisti, io ritenni che fosse la scelta giusta. Assieme al mio amico Rosetti, che vive a Forlì, fondammo a Bologna un giornale, che si chiamava “La Svolta” (uscì dal ’62 al ’64). Io ero il più anziano tra i giovani di quel gruppo. Si può dire che, a Bologna, il Psiup nacque in casa mia. Intanto Magnani, dopo aver aderito per qualche tempo alla corrente di Basso, decideva, intorno al ’62, di rientrare nel Pci.
All’inizio degli anni Sessanta, quindi, sceglievi una tua strada autonoma, sia rispetto a Magnani che rispetto a Cucchi?
Sì, in effetti è così. Tra il ’62 e il ’64 tornai a impegnarmi fortemente in politica. Diventai segretario del Psiup di Imola e vicesegretario di quello di Bologna. A Imola il Psiup aveva duecento iscritti. Se vuoi, non erano molti, però avevamo raggiunto circa il 3%. Quindi, insomma, il partito c’era. Più tardi, nel ’72, quando si sciolse il Psiup, decisi infine di entrare nel Pci, affascinato dalla figura di Berlinguer. Sono convinto, ora, che avrei dovuto rimanere un indipendente di sinistra, però allora feci quella scelta… tante volte si può sbagliare in politica. Ho sbagliato cento volte. Ma certo non ho sbagliato ad aderire all’Mli e all’Usi, quello no.
Cucchi e Magnani ebbero l’intuizione e il grandissimo merito di inserire un cuneo nel conformismo di sinistra, che era molto forte negli anni Cinquanta. Il nostro piccolo movimento fu un battistrada che, poi, in qualche modo, favorì una maturazione all’interno del Psi e di tutto il socialismo italiano.
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