Partiamo dal contesto: secondo lei oggi qual è l’ontologia diffusa? Che cos’è la realtà per la maggioranza delle persone?
Credo che la maggioranza sia scissa in varie ontologie. Da una parte c’è chi prende per reale il mondo come ce lo presentano i sensi: si crede cioè che il mondo sia colorato, che ci siano gli odori e così via; che siano reali proprietà astratte come quelle morali, ovvero che esistano azioni oggettivamente buone o cattive. Alcuni hanno credenze religiose, e anche questa è una forma di ontologia. E in più, il senso comune ormai pensa che esistano entità scientifiche come il Dna, gli atomi e i buchi neri. È un’ontologia varia e pluralistica quella più diffusa. La filosofia tende invece a essere unilaterale e non prende seriamente alcune di queste ontologie.
Il suo libro inizia citando l’australiano John Heil, filosofo della mente: nel 1989 scriveva che solo l’Australia continuava a essere “la roccaforte di realisti e marsupiali”, quasi che la questione della realtà fosse definitivamente passata di moda per la filosofia europea. Ci sono ragioni storiche per questo ritorno di interesse?
In Italia e in Europa, per il pensiero continentale, questo fenomeno è effettivamente più recente; nel pensiero angloamericano si è ricominciato a parlare di realtà già dagli anni Novanta. Prima c’è stata, in filosofia, una specie di ubriacatura di posizioni anti-realiste molto variegate: anti-realismo sulla scienza, come per lo strumentalismo; anti-realismo sul concetto di verità...
La stessa idea che si possa parlare di “realtà” è stata messa in questione dai filosofi postmoderni e non solo -Van Fraassen, grande filosofo della scienza, è anti-realista rispetto alle entità scientifiche, e non è certo un postmoderno. Il ritorno del realismo è stato discusso a lungo all’estero, ma il dibattito italiano è rimasto un po’ indietro: oggi nessuno prende più seriamente l’idea che non si possa parlare di oggettività, verità o realtà.
Questi sono i cascami di un movimento importante, la cosiddetta svolta linguistica novecentesca, che intendeva l’indagine filosofica innanzitutto come indagine sul linguaggio: non si poteva parlare oggettivamente di fenomeni esterni, occorreva piuttosto concentrarci sul nostro modo di enunciarli. Queste visioni, che all’inizio erano anche liberatorie, hanno avuto conseguenze nefaste. Senza dubbio possono esserci forme forti di dogmatismo rispetto alla realtà, e un po’ di sano senso critico è ben utile, ma arrivare a contestare il valore di realtà delle opinioni degli scienziati porta a posizioni come quelle dei no-vax e degli anti-mask. Forme di relativismo culturale molto forte, sebbene spesso motivate da esigenze progressiste, portano a conseguenze nocive. Pensiamo al campo morale: se ogni cultura è allo stesso livello come possiamo sostenere che tagliare le mani ai ladri sia una cosa incivile e sbagliata? A livello politico ed etico, rinunciare all’idea che esistano forme di oggettività è una posizione pericolosa. Io credo che esista il progresso morale, ad esempio.
Immagino che questo sia uno dei motivi per cui il dibattito sul realismo dovrebbe interessare anche chi non è filosofo.
Esatto. Al di là delle questioni specifiche della filosofia, il dibattito sulla realtà è vivo in tantissimi ambiti.
Ho citato adesso il campo morale: esiste una morale oggettiva e trans-culturale, oppure no? Pensiamo alla scienza: i virus esistono veramente o sono costrutti artificiali del pensiero scientifico? La religione: esistono oggettivamente Dio o altri enti soprannaturali? Il diritto: le multinazionali esistono come entità? Perché, se non esistono, non si possono nemmeno criticare o condannare: si può condannare il Ceo, ma non la multinazionale in quanto tale; ecco un famoso dibattito di social ontology. E così via in tantissimi alt ...[continua]
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