C’è un punto segreto in cui la perdita sfiora e incrocia la giustizia. E’ un punto in cui il nostro debito eterno “non dire ho perduto ma ho restituito”, per un attimo si fa limpido come una moneta nell’acqua. Perdere significa accettare di essere scagliati lontano, oltre noi stessi nel deserto di una terra dove c’è solo nudità. Era bello il verso del Kohelet citato da Erri De Luca nel numero 29 di Una città, la grazia di quel pane gettato sulla superficie dell’acqua, la capacità di lasciare proprio ciò che si ritiene più prezioso. E’ la perfezione di ogni vero abbandono, il silenzio delle case prima delle partenze, gli esseri amati che devono andare senza di noi verso la morte. Getta il tuo pane sulla superficie dell’acqua lo ritroverai nei giorni. Forse ciò che ritroveremo è solo l’istante in cui abbiamo accolto la decisione di non conservare, la generosità assoluta, senza calcolo di ricompensa che depone su noi la gravità della benedizione. Potremmo pensare la perdita come una liberazione, pensare che abbia a che fare con la leggerezza è vero invece il contrario: chi perde, chi è nella nudità e nella privazione ha la schiena sgombra solo per prendere su di sè il mondo -nessun bagaglio per trascinare meglio il ferro e il legno di un carro-, per lasciare che sul dorso si accatastino l’aria e la pioggia, la molteplicità, il disordine delle cose.
Non è la rassegnazione terrena ma la forza mite di Cristo che risponde nel Getzemani ai soldati;sì sono io”:, la povertà della roccia, del telo funebre vuoto per il peso dei peccati umani.
Giotto ha rappresentato tutto questo nella Rinuncia agli averi di Assisi: Francesco è nudo ma intorno alla sua privazione, nell’angolo retto del suo corpo inginocchiato tutto pesa, le architetture, lo scudo del cielo, le vesti dei personaggi, tutto infittisce come se la città con le sue cure, i suoi guadagni, con il suo “utile”, la sua demoniaca complessità, attendessero proprio il suo gesto per diventare destino. Forse la santità non è che farsi asini: essere l’asina che sente sui fianchi la spina degli ulivi, nella fatica del mattino, sotto il corpo di Dio, nel grande zoccolo di Gerusalemme.
Antonella Anedda