Dentro al fenomeno dell’immigrazione araba a Milano e ai suoi molteplici problemi resta oscurata la questione di come le donne vivono i vari quartieri o ghetti della città nei quali sono in genere relegate. Luoghi in cui le donne, mogli e madri, sono impegnate, con prole numerosa, in battaglie quotidiane per i problemi della scuola, dei medici, dei vaccini, della spesa quotidiana e della casa, e tutto senza conoscere la lingua!
Il quartiere San Siro a Milano è uno di questi luoghi. È un grande quartiere popolare di più di seimila alloggi, costruito negli anni Trenta per gli operai delle nuove fabbriche cresciute in città, che è diventato dagli anni Ottanta luogo di crescente presenza extracomunitaria, prevalentemente araba, con le prime migrazioni di uomini soli, poi raggiunti dalle donne a formare famiglie. Questo flusso ha negli ultimi decenni iniziato a crescere, con provenienze anche da altri paesi: oggi è presente una multietnicità che non viene solo dall’Africa, ma dall’Asia, dal Sud America e anche dai paesi dell’est Europa. I problemi sociali sono moltissimi, dovuti non solo alla precarietà economica e lavorativa di gran parte dei capifamiglia, ma anche alla piccolezza e scarsa manutenzione delle abitazioni e agli spazi urbani poveri e in gran parte degradati. Sono questi i luoghi dove si svolge esclusivamente la vita delle donne, in particolare quelle di origine araba: sulle quali grava -malgrado spesso la giovanissima età e la mancanza del prezioso sostegno della madre- il compito dell’accudimento dei bambini, della loro cura, del loro inserimento nelle scuole… la preoccupazione di crescerli…
Per questo, in mancanza di qualsiasi altra struttura pubblica, si sono attivate nel quartiere diverse associazioni di volontariato che si impegnano nell’insegnamento gratuito della lingua alle donne. Un impegno che, al di là della sua utilità specifica vale anche a fare emergere -in un contesto istituzionale che pare sordo al problema se non per liberarsene delegandolo- quanto esso possa essere ricco di valori emancipativi e umani.
La prima a essersi interessata al problema è stata la Scuola serale dell’associazione Alfabeti -una Onlus promossa nel 1995 dal partito Rifondazione di zona- che nel 2002, grazie alla sensibilità di una assistente sanitaria e l’appoggio di due insegnanti volontarie, fondò la Scuola Donne di Alfabeti, tenuta al mattino. Ne ripercorriamo brevemente la storia, che fu per il quartiere pionieristica. Ne parlano con Bianca Bottero, Lucia Luchina che ne fu l’ideatrice e Valeria De Molli, che ne divenne la responsabile.

 
Come è nata l’esigenza di aprire una scuola di italiano per le donne immigrate del quartiere San Siro.
Lucia. Ho lavorato come assistente sanitaria dal 1980 al 2010 presso il Consultorio Pediatrico di via Paravia, 81. Era un servizio preventivo, rivolto ai bambini da zero ai tre anni, per la tutela sanitaria, psicologica e sociale dell’infanzia.
Il consultorio occupava un’ala dell’asilo nido di zona, che era ubicato in adiacenza al grande quartiere popolare di San Siro, un quartiere fortemente degradato dove, a partire dal 1984, l’Amministrazione Comunale iniziò ad assegnare alloggi a extracomunitari con conseguente aumento di nuclei familiari dove forte era la presenza di minori, donne in gravidanza e donne sole capo famiglia. La percentuale di adesione delle famiglie straniere al servizio aumentò di anno in anno e passò dal 15% del 1994 al 39% del 2001; la maggioranza dei bambini era egiziana, seguivano marocchini e tunisini. Dal 1994 al 2002 i bambini arabi seguiti dal servizio sono stati 307.
L’ufficio anagrafe del Comune di Milano trasmetteva settimanalmente a tutti i consultori pediatrici della città gli elenchi dei bambini nati e da questi elenchi estrapolavo i nominativi dei bambini che appartenevano al bacino di utenza del consultorio. Ne seguii circa l’81%, con visite domiciliari, su appuntamento preventivamente concordato, entro il ventesimo giorno dalla nascita.
I temi affrontati con le mamme, in un contesto familiare spesso degradato, riguardavano la salute dei bimbi e i loro bisogni. Le maggiori difficoltà che incontravo erano di tipo linguistico e all’occorrenza cercavo la collaborazione del padre o di parenti che, però, diventavano gli interpreti, i “portatori” dei bisogni di mamme e bimbi, così che, a volte, la loro presenza comprometteva e influenzava l’esito del colloquio. Le mamme erano sempre donne molto giovani, chiuse in casa, in ...[continua]

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