Sara Fenoglio è ricercatrice dell’Università di Torino. Si occupa di un progetto per introdurre il community organizing a Torino partendo dal quartiere di Barriera di Milano.

Qual è la storia del tuo incontro col community organizing?
La mia scoperta parte dalla ricerca personale di una professione, dal tentativo di creare una convergenza tra la persona che sono e quella che vorrei essere, anche dal punto di vista lavorativo. In seguito alla laurea in studi internazionali, sono andata in Myanmar a sviluppare una ricerca sul ruolo dei giovani nei processi di pace, e quindi mi sono trovata a confrontar-mi molto con la vita dei giovani in contesti democratici rispetto a quella dei giovani nati in un paese con una dittatura, in cui la libertà di stampa e di espressione è stata sempre censurata. Così mi sono resa conto della grande libertà di cui noi godiamo e soprattutto di quanto poco ci sentiamo in dovere di intervenire per migliorare il contesto in cui viviamo. Tornata a Torino, si è aperto questo “baratro” della mia esperienza personale -non ho mai fatto attivismo politico, non ho mai preso particolari posizioni, credo di aver avuto un po’ di apatia verso la politica, nonostante abbia scelto un percorso in scienze internazionali. Mi sono laureata a marzo e ad aprile il mio relatore mi ha proposto di partecipare a questo corso di formazione sul community organizing. Mi ha detto “Va’, esplora!”. Ho esplorato, ed effettivamente la cosa mi ha intrigato molto, con le sue caratteristiche di ricerca, di ascolto del territorio, della capacità  di far emergere le risorse, le storie fondanti di una persona. Mi piaceva l’idea di ritrovare nuove forme di legami, investire nelle relazioni tra gli individui e nelle comunità, quelle che vengono definite “associazioni àncora” nel community organizing e quindi rieducarsi al percorso di un paese democratico, conoscere quali sono i tuoi diritti, i tuoi doveri. E accorgersi quindi dei nessi economia-stato-società civile e che occorre riappropriarsi proprio di concetti, come ad esempio quello di potere, che di per sé è un concetto neutro e assume una accezione negativa o positiva a seconda dell’uso che se ne fa.
Come nasce il “tuo” community organizing?
La mia esperienza nasce appunto con questa formazione in cui sono stata sensibilizzata a un approccio sviluppatosi negli anni Trenta e poi formalizzato da Saul Alinsky. Mi ha molto intrigato anche rispetto alla mia esperienza scoutistica: anche questo è un contesto in cui vengono dati gli strumenti necessari per dare il meglio di se stessi e diventare cittadini migliori al di là del proprio credo e delle proprie personali preferenze politiche.
Ho rivisto nel community organizing un modo per fornire ai singoli cittadini uno strumento per essere buoni cittadini; sono convinta che ci siano tante occasioni nella vita di una persona giovane che ti portano a fare esperienze analoghe ma non c’è nulla che ti permetta di fare altrettanto da adulto. Una volta che compi diciott’anni,  sia che tu scelga di entrare nel mondo lavorativo dell’univerisità o in qualsiasi altro ambito, non c’è più nessun investimento su di te come cittadino. Nel community organizing ho visto la possibilità di far accadere proprio questo.
Dove si è concretizzato il tuo intervento a Torino?
Sto lavorando per l’Università di Torino in un progetto pilota al quartiere Barriera di Milano [quartiere nord di Torino, ndr], progetto che si inserisce in un contesto più ampio di ricerca sulla convivenza interreligiosa e la qualità della vita nei quartieri di Torino attraverso l’approccio del community organizing. Analizzare la società civile e cercare di comprendere come si potrebbe riorganizzare creando un rapporto tra i decisori, che hanno il dovere di scegliere e assumere decisioni, e i cittadini che, a loro volta, hanno il diritto di pretendere che il decisore porti a termine le politiche che ha promesso.
Dopo essere stata selezionata per questo progetto, sono stata mandata negli Stati Uniti ad Annapolis, nel Maryland, e lì ho lavorato per tre mesi presso una organizzazione di comunità che si chiama Anne Arundell Connecting Together (Act), affiliata della Iaf. Ho collaborato principalmente con molteplici organizzazioni religiose: parrocchie, moschee, sinagoghe, occupandomi principalmente del tema del diritto all’abitazione, in particolare per strutture simili alle case popolari, però di proprietà privata, quindi con molti problemi burocratici relativi ...[continua]

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