Alfiero Boschiero, sindacalista della Cgil, è stato segretario generale del comprensorio Mirano-Dolo dal 1978 al 1981 e negli anni Ottanta componente della segreteria regionale dei metalmeccanici e della confederazione. Presidente dell’Auser Veneto nei primi anni Duemila, dal 2004 al 2017 è stato direttore dell’Ires Veneto.

Nel numero 1/2019 della rivista “Venetica” dal titolo Articolo nove. Esperienze di medicina del lavoro a Nordest, avete dedicato ampio spazio alle lotte operaie per la salute e il risanamento degli ambienti di lavoro nei primi anni Settanta. Puoi raccontare?
Il volume che abbiamo curato con Gilda Zazzara, storica del lavoro a Ca’ Foscari, acuta e militante, è nato in occasione di un convegno svoltosi nell’aprile 2013, a Venezia, all’interno del corso di storia del lavoro. Va detto che questo insegnamento è stato voluto dalla Cgil del Veneto che l’ha sostenuto direttamente per undici anni, sino a che Ca’ Foscari l’ha acquisito, finalmente, nella propria offerta istituzionale.
Nel convegno, e ora nella rivista, sette medici del lavoro, venticinquenni nei primi anni Settanta e neolaureati in medicina, raccontano quanto hanno vissuto. Il medico del lavoro, com’è intuibile, è una figura tecnica, un laureato in medicina che sceglie come propria specializzazione l’analisi di quanto e perché gli infortuni, la malattia, la mortalità, siano connessi all’ambiente di lavoro; è quindi uno sguardo che tiene insieme l’analisi sul singolo individuo, il suo benessere psicofisico, le sue patologie e, al contempo, l’indagine sul contesto fisico, relazionale e strutturale in cui la persona è inserita professionalmente.
Noi volevamo dar conto anche del clima dell’epoca. Tutto origina da uno scatto di soggettività dei lavoratori non più disponibili a scambiare salute con rassegnazione e, semmai, risarcimenti salariali. I giovani medici del lavoro colgono questa nuova domanda di salute, di prevenzione, e offrono agli operai e ai consigli di fabbrica che si ribellavano alla situazione tradizionale una sponda di competenza tecnico-professionale a loro necessaria. Voglio conoscere le cause del mio malessere, dell’ansia, dell’insonnia, voglio sapere come stanno i miei polmoni, ma voglio anche misurare i fumi, i rumori, le polveri del reparto o dell’officina. Non ho come operaio la competenza tecnica per fare le analisi mediche su di me e sull’ambiente. Voglio avere dei tecnici a disposizione, di mia fiducia.
Ecco l’articolo 9. È lo spazio di potere, di diritto, sancito dalla legge 300 -approvata a maggio del 1970- affinché i lavoratori, attraverso tecnici di fiducia, possano fare le necessarie indagini e introdurre i mutamenti indispensabili a superare situazioni che erano, a volte, davvero infernali. Questo processo liberatorio toglie dall’inerzia anche le organizzazioni sindacali, sino ad allora troppo tiepide, remissive, condizionate da una cultura tollerante dei rischi ambientali.
La vicende raccontate nel volume descrivono, appunto, una serie di esperienze in diverse aree del Nordest che era, allora, nel pieno del processo di industrializzazione. Con una densa introduzione di Francesco Carnevale, medico e storico sociale, anche lui laureato a Padova e protagonista di tante battaglie per la salute.
Anche Porto Marghera negli anni Settanta è un polo industriale di primissimo rilievo, molto esposto sui temi ambientali.
Ti segnalo, a questo proposito, l’intervista a Angelo Tettamanti, un tecnico al Petrolchimico, dove lavoravo anch’io, che presiedeva la commissione ambiente del Consiglio di fabbrica. Quindi, tecnico e sindacalista. Già il titolo dell’intervista, “Il diavolo fa le pentole, il sindacato i coperchi”, dice molto. La sua testimonianza è importante perché viene dall’interno dell’azienda che, per le caratteristiche produttive, aveva la nomea più pericolosa a Porto Marghera. E perché dà conto di come il sindacato si attrezza al passaggio culturale e politico dal risarcimento salariale al risanamento degli impianti e degli ambienti di lavoro. Tieni presente che all’epoca noi operai (edili) avevamo un 15-20% di retribuzione dovuto alla “indennità Porto Marghera”, cioè siccome lavoravamo in una situazione a rischio ci veniva erogato un premio in denaro.
Questo era gratificante, ma ovviamente non risolveva nulla delle ragioni pesanti, spesso drammatiche, che la fabbrica ci imponeva. Noi abbiamo cercato di raccontare questo: il passaggio da una concezione risarcitoria a una soggettività d ...[continua]

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