Bruno Anastasia si occupa di analisi del mercato del lavoro. Ha diretto fino al 2019 l’Osservatorio sul mercato del lavoro regionale di Veneto Lavoro. Dal 1994 al 2001 è stato presidente del Coses di Venezia e dal 2001 al 2006 presidente dell’Ires Veneto. Dal 2000 al 2006 ha collaborato con il Gruppo nazionale di monitoraggio delle politiche del lavoro istituito presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali; dal 2016 ha collaborato alla redazione del Rapporto annuale dell’Inps. Ha insegnato Economia del lavoro all’Università di Trieste.

Torniamo a fare il punto sulla situazione del mercato del lavoro. Partiamo dai dati e da alcune possibili spiegazioni.
La prima cosa da sottolineare è la crescita continua registrata negli ultimi anni. Dopo la pandemia -che ovviamente aveva ridotto il numero degli occupati- c’è stato prima un fisiologico rimbalzo, poi una crescita continua della domanda di lavoro e quindi degli occupati. Una crescita sorprendente per continuità: ci si aspettava che a un certo punto si interrompesse e invece è proseguita… almeno fino a oggi. A ogni minima oscillazione (a marzo 2025 come già a settembre e ottobre 2024) c’è sempre chi dice: “Ecco, c’è il cambio di tendenza”. Che certo, prima o poi ci sarà, perché la crescita non può essere infinita. Ma per ora stiamo ai dati: e quindi registriamo che a marzo 2025 (ultimo dato disponibile) gli occupati in Italia -dati Istat, Rilevazione sulle forze di lavoro- erano 24,3 milioni contro i 23,1 milioni di marzo 2019 (prendiamo un dato confrontabile di prima della pandemia).
E poi bisogna sottolineare che la domanda crescente di lavoro si è espressa come domanda di lavoro dipendente: nonostante le politiche di agevolazioni (come la flat tax) per alcune tipologie di lavoro indipendente, nel suo insieme esso non è cresciuto.
È cresciuto dunque il lavoro dipendente e dentro il lavoro dipendente è cresciuto il lavoro a tempo indeterminato. Quindi due fatti robusti, in barba alle teorie sulla fine del lavoro dipendente da un lato e sulla sua precarizzazione incessante dall’altro.
Sulle ragioni e sulla solidità di questi fatti avremo chiarezza, come al solito, con il tempo. Ma possiamo discutere delle ipotesi.
Intanto liquidiamo quella che dice che i conti sono sbagliati. È un’affermazione standard che alcuni -anche importanti protagonisti della vita sociale- propongono quando quello che succede non coincide con ciò che si aspettavano. Questa tesi è insostenibile: c’è un riscontro formidabile dei dati Istat con i dati delle fonti amministrative (Inps, Ministero del lavoro, Agenzia delle entrate): difficile sostenere che le imprese barino quando dichiarano più dipendenti e quindi pagano più contributi sociali.
Veniamo alle questioni serie. Si tratta di spiegare la crescita dell’occupazione all’interno di un contesto in cui il Pil è comunque cresciuto poco al netto del rimbalzo post pandemia. Va ricordato che dal 2001 in nessun anno l’economia italiana (rimbalzo post pandemico a parte) ha toccato il 2% di crescita. Nel 2023 ci siamo fermati allo 0,7%, idem nel 2024 e nel 2025 -stando alle previsioni attuali -sarà analoga: il 2% di crescita si fa sì, ma in tre anni… Se in questo contesto l’occupazione cresce, allora una prima linea interpretativa sostiene che il prezzo del lavoro (il salario) è così conveniente che le imprese, piuttosto che fare costosi investimenti in automazione e in organizzazione, trovano più logico allargare gli organici: l’ovvia conseguenza è che la produttività non aumenta (anzi, servono più lavoratori anche per incrementi marginali di prodotto, in barba all’innovazione tecnologica). Allora la questione diventa: perché il salario non è cresciuto? Su questo, magari, ritorneremo.
Una seconda diffusa lettura tira in ballo la demografia: la popolazione in età da lavoro diminuisce (dal 2014) ma soprattutto invecchia, e questo si sente e si vede. Al declino quantitativo, che diverrà rilevante nel prossimo decennio (salvo immigrazioni crescenti), si accompagna -già sicuro- l’invecchiamento. E l’invecchiamento viene utilizzato per spiegare la crescita dell’occupazione e soprattutto del tempo indeterminato: quanto più la popolazione in età da lavoro è anziana, tanto più è probabile che i rapporti di lavoro siano a tempo indeterminato perché la correlazione tra età e tempo indeterminato è molto forte; e ciò sarebbe rafforzato dal fatto che una quota di lavoratori anziani sulla soglia della pensione sono trattenuti ...[continua]

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