José Jacques Medina, militante del Sessantotto messicano e organizzatore sindacale, da trent’anni è impegnato nella difesa dei diritti civili degli immigrati irregolari latinoamericani negli Usa.

Puoi raccontarci sinteticamente la tua biografia? Naturalmente soffermandoti sul tuo impegno politico e sociale…
Intanto sono nato a Città del Messico, nel Distretto Federale, el De Fe, nel 1944, in una delle aree urbane più popolate del mondo. A oggi vi vivono ufficialmente più di 24 milioni di persone. Io dico che sono del defiéndete (difenditi) perché adesso la situazione nella capitale è molto difficile. Raccontare sinteticamente la mia esperienza politica non è però così facile! È infatti iniziata più di quarant’anni fa. Ho cercato di sintetizzarla nel titolo del mio ultimo libro: De mojado a diputado (i mojados, "bagnati”, sono gli emigrati irregolari negli Usa, l’espressione deriva dal fatto che nella maggior parte dei casi passano la frontiera attraversando il Río Bravo), dove ho raccontato la mia esperienza di esilio. Non ho lasciato il Messico di mia volontà. Sono un attivista del movimento del Sessantotto, ho vissuto il massacro di Tlatelolco e quello del 10 di giugno del 1971. Studiavo alla Facoltà di giurisprudenza della Unam (Universidad Nacional Autónoma de México) e nel Sessantotto sono diventato uno degli avvocati impegnati a difendere gli attivisti del movimento. In quella veste ho partecipato alla formazione del Comité Jurídico Popular, che portava avanti legalmente le istanze di giustizia delle varie componenti del movimento, non solo degli studenti, ma dei contadini, degli operai, dei sindacati, eccetera. E poi, con la repressione del Sessantotto, quando non ci fu più permesso di manifestare pubblicamente, ci occupammo anche di difendere i militanti del movimento guerrigliero urbano nato in reazione ai fatti di Tlatelolco. Sto parlando di un periodo che va dal ’68 al ’71. Erano casi molto difficili da rappresentare. I giudici si aspettavano che come avvocato difensore non dicessi in realtà niente, mentre io ne facevo occasione di rivendicazione politica, di denuncia della repressione. Ho difeso anche il leader del sindacato dei ferrovieri, Demetrio Vallejo, riuscendo a tirarlo fuori dal carcere, dopo dieci anni di prigione inflittigli per aver guidato le lotte sindacali del 1958-’59. Il problema però era un altro: anche se vincevamo le cause in tribunale, le sentenze favorevoli erano sospese per intervento del Presidente Federale, Luis Echeverría. In Messico l’ultima istanza era rivolgersi al presidente, farsi la foto con lui e vedere se da su in giù si trovava una soluzione, ma siccome in quel periodo il presidente era considerato un assassino, era impensabile che noi sottoponessimo a lui i casi perché li risolvesse con il "suo dito presidenziale”. Mettemmo allora a punto una tattica che fu per noi fatale. Trasferire la lotta nel campus delle università occupandole e proclamando lo sciopero della fame fino all’applicazione delle sentenze, con la consegna: "solución o muerte”. Ci invitarono a negoziare per cercare di corromperci. Non avendo accettato, si scatenò la repressione. Il governo scelse infatti di risolvere il problema con la polizia, violando l’autonomia universitaria.
Un giorno lessi nel giornale che un gruppo di delinquenti aveva tentato di sequestrare il rettore della Unam. Rimasi di sale: ero indicato insieme ad altri miei compagni avvocati come autore del presunto misfatto. Ogni giorno pubblicavano la mia fotografia dicendo che ero pericoloso e armato. I mezzi di informazione stavano preparando i messicani all’idea che l’unica possibile conclusione della vicenda fosse lo scontro violento fra la polizia e i manifestanti, dall’esito naturalmente scontato. A quel punto dovetti scegliere fra l’esilio o la morte. La raccomandazione che ci veniva rivolta era di andarcene. Molti se ne andarono a Cuba, altri in Cile o in Corea. Io fui l’unico ad andare negli Stati Uniti… Che era il nemico. Nell’imperio norteamericano. C’ero andato perché avevo un gruppo di amici chicanos, cioè figli di immigrati messicani, che avevo accolto in Messico, dove erano venuti per riscoprire le loro radici culturali. Io ho detto loro in modo un po’ drastico e radicale: "Qui ci sono solo ricchi e poveri. Non c’è cultura. Non ci sono radici culturali, qui o sono operai o sono…”. Ma naturalmente la storia del nostro paese era per loro un punto di riferimento, di appartenenza. Ad esem ...[continua]

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