Paride Saleri è titolare della Omb Saleri di Brescia, azienda nata nel 1980 come produttrice di minuterie metalliche e valvole di arresto per l’uso domestico di gas e acqua. Negli anni ha ampliato la propria produzione entrando nel mercato del gas per autotrazione; dal 2001 realizza valvole e multivalvole per motori alimentati a gpl e metano.

Da qualche anno, la Omb ha intrapreso un percorso di innovazione dei processi di produzione che vede al centro la partecipazione dei lavoratori. Può raccontarci intanto la storia di questa azienda?
Io vengo da Lumezzane, luogo-archetipo della storia di un certo tipo di industria italiana: piccole realtà messe su da capiofficina, ma anche da operai che si specializzano e cominciano a chiedere lavoro al vecchio datore di lavoro; imprese che per tanti anni hanno avuto successo. Questo modello non funziona più perché negli ultimi 25 anni si sono presentati sul mercato, e con una certa irruenza, i nuovi produttori. A quel punto un modello basato sulla capacità di lavoro, sulla tenacia e sull’abbattere i costi non era più vincente. Ecco, io sono dentro questa storia, che è una storia vecchia.
A metà degli anni Settanta ho cominciato a fare l’insegnante supplente di economia e diritto. Poi è arrivato il secondo figlio, che oggi lavora qui, e anche il terzo. A quel punto eravamo in difficoltà perché come insegnante precario non prendevo la paga di luglio e agosto e fino a quando non mi chiamavano ero senza soldi.
Nel frattempo, a inizio anni Ottanta, mio fratello aveva problemi più o meno simili e aveva deciso di chiedere aiuto a mio padre per acquistare una ditta artigiana di Brescia. Mi associai. La ditta costava 120 milioni di lire, che non erano pochi; mio padre ci diede 60 milioni e il resto furono cambiali. E lì partimmo, io, mio fratello e due operai. Io intanto continuavo a insegnare al mattino e al pomeriggio andavo nella fabbrichetta. Lavoravo in un garage. Pensa che quando entrava la padrona di questo piccolo capannone di 200 metri che ci aveva dato in affitto, io dovevo uscire perché altrimenti sarei rimasto soffocato dai gas dell’automobile. Nel giro di qualche mese questo lavoro iniziò ad appassionarmi. Cavoli, mi piaceva proprio!
Facevamo dadi per le aziende locali, avevamo due clienti. In questo senso dico che sono legato al modello tradizionale di Lumezzane, producevamo i dadi per due aziende locali che giustamente ci trattavano più come degli artigiani. Con due operai, facevamo 300 milioni di lire di fatturato, mio fratello portava a casa 700.000 lire e io 300.000, perché lui faceva anche la mattina. Ci è andata bene. Abbiamo presto cominciato a uscire dalla provincia poi, tramite amici, siamo andati all’estero. La prima vendita fuori dall’Italia è stata in Olanda; anche adesso parlo solo un inglese maccheronico, ma allora proprio niente, zero: avendo fatto studi classici sapevo francese, greco e latino... che non servono a niente per fare affari!
Comunque, con un po’ di fortuna e un po’ di bravura, abbiamo sviluppato un’azienda che vent’anni fa, dopo quindici anni di attività, aveva già una dimensione dignitosa, anche se sempre a livello di artigiani. Intanto continuavo a leggere e a studiare. Già allora mi incuriosivano gli studi su un modello industriale innovativo.
Venticinque anni fa ebbi la fortuna di diventare fornitore di una ditta giapponese. Da loro appresi alcuni strumenti di controllo della produzione che, se devo essere sincero, per come erano declinati in Giappone, creavano aziende-caserma. Davvero c’era poco da dire in termini positivi su quei sistemi, se non che le loro automobili andavano bene e costavano meno, ma perché trattavano malissimo gli operai! Guarda, la prima volta che sono andato in Giappone, in un sobborgo di Tokyo, mi sono sentito dire che siccome c’era un po’ di crisi gli operai lavoravano gratis. Eh no, non andava bene... Poi ricordo le panchette di legno e quei fagottini portati da casa che secondo loro erano "la mensa degli operai”. Ricordo che pensai: "Ecco perché il Giappone è stato un paese di immigrazione dei fascisti italiani”. Glielo dissi anche. Però da loro imparai qualcosa di importante, per esempio, che il controllo del pezzo non è finalizzato a vedere se il pezzo va bene o no, ma se la macchina che l’ha prodotto è ancora attrezzata bene.
Ogni macchina, per una serie di circostanze, anche solo per la temperatura esterna, subisce nel tempo delle derive tecniche. Ecco, se controlli il pezzo c ...[continua]

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