Bruno Contini, già professore di econometria e economia applicata presso l’Università di Torino, è fondatore e direttore del Laboratorio R. Revelli, Centre for Employment Studies del Collegio Carlo Alberto. Negli ultimi vent’anni i suoi interessi di ricerca si sono concentrati sull’analisi del mercato del lavoro e degli effetti economici dell’invecchiamento. Ha curato, tra l’altro, Osservatorio sulla mobilità del lavoro in Italia, Il Mulino 2002, ed Eppur si muove: persistenze e dinamiche nel mercato del lavoro (con Ugo Trivellato), Il Mulino 2005.

Il mercato del lavoro italiano è caratterizzato da un invecchiamento della forza lavoro e da un’alta disoccupazione, soprattutto, ma non solo, giovanile...
Cominciamo con un inquadramento generale. Possiamo dire che a partire dagli anni Settanta il problema della disoccupazione giovanile è stato un tratto costante, non solo del nostro paese. Tant’è che le istituzioni -europee specialmente- l’hanno sempre messo all’ordine del giorno suggerendo politiche che affrontassero o che tentassero di risolvere il problema. Queste politiche erano sostanzialmente basate su due filoni: uno, flessibilizzare il mercato; due, sussidiare l’occupazione giovanile. Il caso tipico in Italia è stato quello dei contratti di formazione lavoro (Cfl), che sono partiti a metà anni Ottanta e che appunto sussidiavano, nel senso che in larga misura i contributi erano a carico dello Stato. Terminati i due anni di formazione, peraltro, le imprese potevano tranquillamente non rinnovarli.
Nel 1996 abbiamo poi la Riforma legata al cosiddetto pacchetto Treu, che introduce due novità: la liberalizzazione dei contratti temporanei (che comunque già esistevano, per quanto soggetti ad alcune restrizioni) e il "co.co.co.”, spesso lavoro dipendente mascherato, caratterizzato da bassi contributi sociali.
Bisogna però dire che prima dell’introduzione del Cfl e del Pacchetto Treu, la prassi di interrompere contratti formalmente permanenti era già diffusa, e non solo con i giovani. La legge infatti era molto protettiva sulla carta, ma facilmente aggirabile nei fatti (come dicono i giuristi la "law in the books” e la ”law in action” sono due faccende differenti).
La riforma Treu andava dunque a legittimare pratiche già in uso.
Ma torniamo al problema della disoccupazione giovanile. Per molti anni è prevalsa anche l’idea che per accomodare i giovani fosse necessario far fuori gli anziani. Questa è una cosa cui hanno creduto le istituzioni, le imprese, e ci hanno creduto anche i sindacati, che hanno negoziato pensioni anticipate proprio con l’idea che prepensionando i cinquantenni -a volte anche i quarantacinquenni- si facesse spazio per l’assunzione dei giovani.
Ora, questa cosa non è che non abbia funzionato mai, però sicuramente non ha funzionato nei modi e negli ordini di grandezza che ci si aspettava.
Anche oggi la questione è controversa. Tuttavia se si guarda ai paesi europei, non è affatto vero che laddove ci sono molti giovani al lavoro ci sono pochi vecchi, anzi è vero esattamente il contrario. Nei paesi scandinavi, ad esempio, dove i tassi di occupazione degli anziani sono nell’ordine del 60%, quelli dei giovani sono ugualmente alti.
L’Olanda ha la specificità di essere riuscita nell’impresa facendo ricorso all’occupazione a tempo parziale in modo massiccio. Però, anche lasciando perdere questi paesi, in genere si nota che dove ci sono molti anziani al lavoro ci sono anche molti giovani occupati.
Nel nostro paese invece, nonostante le politiche di prepensionamento messe in atto, se si guarda alla struttura per età dell’occupazione nell’industria e nei servizi, perlomeno in quelli relativamente avanzati, si scopre che c’è stato un invecchiamento notevole, soprattutto nel settore manifatturiero. Negli anni Settanta inizio Ottanta l’età modale era intorno ai 35-36 anni; oggi l’età modale, cioè il grosso di chi lavora, ha intorno ai 45-48 anni.
Quindi abbiamo una forza lavoro che soffre di invecchiamento e dall’altra parte una generazione di giovani che accede con difficoltà al mercato del lavoro. Una situazione di non facile lettura e interpretazione.
E tuttavia, dai vari studi, emerge tutta una serie di fattori molto importanti che farebbero pensare che in Italia l’occupazione giovanile dovrebbe essere molto più ampia di quanto non sia.
Premetto che nelle nostre ultime indagini abbiamo ristretto l’analisi agli individui maschi, così da bypassare quegli ulteriori elementi di compl ...[continua]

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