Potrei iniziare da aprile 1967. Radio Cairo trasmetteva in ebraico e rivolgendosi a noi israeliani diceva cose tipo "Tornate da dove siete venuti!”, "Se non lo farete, noi vi rigetteremo in mare!”. Il clima nel paese era veramente pesante... C’erano ancora molte persone sopravvissute alla Shoah, con i numeri tatuati ben visibili sulle braccia, che s’aggiravano silenziosi, nessuno parlava... La sensazione era che Israele fosse ancora in grave pericolo. Non avevo mai vissuto una situazione così tesa, così difficile per la mia stessa esistenza. La mattina del 5 giugno sentimmo dalla radio che l’aviazione israeliana aveva distrutto a terra l’aviazione egiziana. Naturalmente sapevamo che c’era una coalizione tra egiziani, siriani, giordani, e altri paesi arabi, e quindi non era ancora finita, ma quando sentimmo che l’aviazione egiziana era stata distrutta tirammo un sospiro di sollievo, ci sentimmo salvi. Dopodiché in cinque giorni anche l’aviazione siriana fu distrutta e il nostro esercito occupò la Cisgiordania, il Sinai, Gaza, il Golan e naturalmente anche Gerusalemme. Il clima nel paese cambiò, il senso del pericolo scampato fece scoppiare una grande eccitazione.
Poche settimane dopo la fine della guerra, forse era luglio, qualcuno suonò alla porta. Aprii e mi trovai davanti tre uomini, molto eleganti, con giacca e cravatta... Uno di loro, con voce sicura, mi disse in inglese: "Questa è la casa della nostra famiglia. Può farci entrare a dare un’occhiata?”. Ero un po’ impaurita. Dovetti decidere in un attimo cosa fare, perché loro erano i nostri "nemici”, e poi erano tre uomini ed io una ragazza di vent’anni sola in casa. Non so se si può immaginare come mi sentivo di fronte a quei tre giovani uomini; quello che aveva parlato aveva più o meno 25 anni, gli altri poco di più. In un attimo pensai se sbattere la porta, se dire di passare più tardi, quando fossero tornati dal lavoro i miei genitori, o se fidarmi di loro. Non so cosa mi ha spinto a fidarmi, forse non volevo essere maleducata, forse sentivo che non dovevo perdere quell’opportunità, fatto sta che li ho fatti entrare. Hanno girato lentamente per la casa… hanno guardato… hanno toccato… erano visibilmente commossi. La loro casa era diventata la casa della nostra famiglia, si trattava di una di quelle "proprietà abbandonate”, così si diceva allora, nella guerra del 1948. Mio padre l’aveva comperata dallo Stato.
Io ho fatto automaticamente le cose che si fanno in questi casi, li ho fatti accomodare, ho offerto un succo di frutta... Loro mi hanno chiesto se nel giardino c’era ancora l’albero di limoni che era stato piantato dal padre nel 1939... Poi se ne sono andati, ma prima si sono presentati. Quello che aveva parlato mi mostrò la sua carta d’identità -si chiamava Bashir, viveva a Ramallah- e mi invitò ad andare a trovare la sua famiglia. C’è da dire che per loro era un rischio essere lì a Ramla, perché Ramallah era nei territori occupati e loro non potevano uscire, né io potevo andare da loro senza autorizzazioni. Anche Ramla, al tempo del piano di spartizione dell’Onu nel 1947, doveva appartenere ai palestinesi, ma con la guerra del 1948 fu annessa, con altri territori, allo Stato di Israele.
Su questo si son dette molte cose, ad esempio che la radio araba invitava i palestinesi a lasciare i villaggi per motivi militari e a tornarvi dopo... Ma per quanto riguarda Ramla è assolutamente certo che la popolazione palestinese fu espulsa dall’esercito israeliano, la quasi totalità in pratica fu esiliata. Molte famiglie, tra cui quella di Bashir, caricarono le loro auto, i loro carretti, i loro muli con quello che poterono e se ne andarono verso altre città della Cisgiordania. Israele poi rifiutò di riprendere queste persone, le considerò nemici che non accettavano l’esistenza del nuovo Stato.
Questo ovviamente era vero, ma era naturale che "all’inizio” non potessero accettare lo Stato di Israele… Se io fossi stata una palestinese avrei fatto fatica ad accettare che ...[continua]
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