L’allarme Sars ha aperto uno squarcio sulla Cina. Come interpretare ciò a cui abbiamo assistito?
Direi che l’allarme Sars forse ha innanzitutto permesso di vedere la natura del regime cinese: di fronte a un’emergenza di tali proporzioni, la prima reazione è stata quella di nascondere completamente le informazioni. Quindi il partito comunista a tutt’oggi può controllare la diramazione delle notizie, depistare, far sparire le informazioni; se il partito decide che non se ne parla, non se ne parla. Nella stessa provincia del Guandong, che vanta i giornali più aperti, le redazioni più coraggiose sono subito dovute tornare sui propri passi: è bastata una circolare della municipalità che intimava di mantenere il silenzio. Insomma, su questioni importanti, il partito è ancora assolutamente in grado di imporre il black-out totale.
Così la notizia è rimasta nascosta da novembre fino a fine marzo, quando ormai si stava sviluppando l’epidemia. E anche quando è scoppiato il caos in tutto il mondo -l’informazione poi è uscita da Hong Kong, tradizionale “finestra” del mondo sulla Cina- è stato comunque il partito a decidere che a quel punto bisognava reagire e parlare. Addirittura è stata avviata una mobilitazione generale, anche se anomala, nel senso che è scattata proprio una campagna contro la Sars, come se fosse un nemico del popolo.
Così, mentre tanta gente oggi afferma che la Cina è cambiata tantissimo, noi abbiamo potuto constatare che il controllo esiste ancora. Questo sistema che sembrava ormai scomparso è tornato alla superficie in tutta la sua efficacia: hanno usato i comitati di quartiere, le vecchiette, per sorvegliare la gente.
In questo senso la Sars ha rivelato aspetti molto importanti della natura del sistema politico.
Ha però svelato anche un altro ambito critico, ossia quello sociale; ha infatti rivelato l’assenza quasi totale di un sistema sanitario: chi non paga non viene curato, chi non paga non entra in ospedale. E questo in un paese cosiddetto socialista. Noi sono anni che lo diciamo però nessuno ci dà retta! Ecco, questa emergenza ha fatto vedere che in realtà, nelle città, la fascia di popolazione prima impiegata negli enti di stato e oggi in cassa integrazione, per beneficiare di un minimo di cure, deve comunque pagare.
Così è accaduto che la gente arrivata all’ospedale con i primi sintomi della Sars, impossibilitata a pagare i 3000 yuan richiesti (circa 300 euro), sia stata rimandata fuori, ed essendo la sindrome molto contagiosa, beh, è facile comprendere come si sia diffuso il virus.
Si è anche visto che in campagna non esiste più un sistema sanitario; c’è solo un apparato che chiede soldi e che vende medicine, ma per accedere in un ospedale bisogna depositare una somma che è al di là delle possibilità della maggior parte della gente.
Esiste infine la rete degli ospedali militari. Quando il sindaco di Pechino, Meng Xuenong, ha annunciato il numero di casi stimati, non solo ha fornito dati falsi, ma nel conteggio non ha considerato i degenti degli ospedali militari, che sfuggono completamente al resto del sistema.
In conclusione questa crisi ha rivelato, anche a chi non voleva rendersene conto, certi aspetti fondamentali di questo regime. Segnalando anche un nuovo fattore, ossia l’ingresso della Cina nella globalizzazione a pieno titolo.
In che senso? L’informazione è uscita ovviamente, tradizionalmente da Hong Kong -è sempre stato così: dal ‘49 chi voleva sapere cosa succedeva in Cina andava a Hong Kong. Però è intercorso anche un altro fenomeno, già visto con i casi di Aids scoperti l’anno scorso. Ci sono infatti persone, nella società cinese, che assumono il ruolo di whistleblower, ossia di soggetti che parlano, e che si esprimono per così dire “pubblicamente”.
Qui di nuovo entra in gioco la globalizzazione. In Cina questa gente oggi ha dei nuovi canali attraverso cui esprimersi: internet e i giornalisti stranieri. Essendo la Cina più integrata al sistema mondiale, oggi queste persone quando parlano trovano qualcuno ad ascoltarle. E il partit ...[continua]
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