I am the master of my fate:
I am the captain of my soul.
William Ernest Henley

Presto, la mattina della vigilia di Natale, dopo mesi di intensa partigianeria dentro e fuori Washington, il Senato americano ha infine approvato una bozza legislativa per la riforma sanitaria, che estende la copertura a milioni di cittadini prima abbandonati a se stessi.  Barack Obama e la maggioranza democratica hanno giustamente dichiarato il risultato una vittoria epocale, nonostante si fermi ben prima di arrivare a quell’assicurazione universale promossa da figure come il congressista dell’Ohio, Dennis Kucinich, e il fu senatore Ted Kennedy, la cui voce in questa causa resta insostituibile. Molti a sinistra si sono sentiti oltraggiati dai compromessi fatti per mettere assieme i 60 voti necessari, ma il presidente e i leader del suo partito insistono di aver fatto del loro meglio, visto il collasso economico ereditato e l’atmosfera politica rigidamente partigiana e piena d’odio che circonda ogni tentativo di riforma. La speranza è che questo sia solo il primo passo verso il riconoscimento dell’assistenza universale come diritto fondamentale di cittadinanza; un’idea perseguita dagli occupanti della Casa Bianca dai tempi di Harry Truman e anche prima. Dalle loro postazioni, i repubblicani, sempre più in mano alle lobby dei medici, dei farmaci e delle assicurazioni, e ansiosi di sferrare un bel colpo paralizzante contro la nuova amministrazione, sono stati intransigenti come non mai nella loro opposizione. Hanno votato all’unanimità contro questa legge, nella tradizione di coloro che cercarono di bloccare la Social Security nel 1935 e Medicare nel 1965. (Un progetto legislativo sulla sanità della Camera dei Rappresentanti, con cui la bozza del senato deve ancora essere armonizzata, che prese un solo voto dal partito di minoranza). 

Un eventuale fallimento di quest’iniziativa sarebbe stato un’inaccettabile, catastrofica occasione mancata, come affermano i suoi sostenitori, e quindi il risultato è significativo. Ma i tentativi bipartisan di Obama sono ormai esauriti. E’ stato ripetutamente dimostrato che dall’altra parte non c’è nessuno con cui sia possibile negoziare in buona fede.
I tamburi della disinformazione incendiaria delle reti via cavo, delle trasmissioni radiofoniche della destra e dei demagoghi come l’ex candidata alla vice presidenza Sarah Palin hanno inibito qualsiasi possibilità di discussioni ragionevoli per i più. 
Le opportunistiche diffamazioni della Palin, per cui la cosiddetta "Obamacare” avrebbe imposto delle orwelliane liste di proscrizione ("death panels”) per "staccare la spina” alle nonne, ritenuta la più grossa menzogna di questo anno infarcito di bugie, tuttavia ha contribuito a distorcere la discussione per molti mesi.
I più "motivati” sembrano voler credere a qualsiasi falsità che metta il presidente in cattiva luce, e in troppi giocano con un linguaggio dai toni pericolosamente vicini all’incitamento alla violenza.
Non conta cosa fa Obama per contrastare la caricatura del suo "antiamericanismo” -decidendo di intensificare la guerra in Afghanistan la stessa settimana in cui ha accettato il premio Nobel per la pace- questa minoranza schiamazzante, arrabbiata e irrazionale non verrà mai convinta.

Più tardi, la vigilia di Natale, sono andato a vedere il nuovo film di Clint Eastwood, Invictus, l’ultimo della serie che ripudia quell’etica della vendetta del "vigilante” con cui Eastwood veniva identificato all’inizio della sua carriera.
E’ un resoconto in stile epico dell’ascesa al potere di Nelson Mandela in Sudafrica a metà degli anni ’90, e posso comprendere perché alcuni abbiano visto delle similitudini con l’attuale paesaggio politico americano (nonostante il regista abbia negato questa intenzione).
Mandela, interpretato magistralmente da Morgan Freeman (una scelta di cast quasi costretta dalla trama), è un uomo di colore che conquista una posizione prima appannaggio esclusivo dei bianchi. La sua legittimità è messa in discussione da molti e il paese è profondamente diviso in razze e tribù, talvolta in bilico, sull’orlo di una guerra civile.
Mandela astutamente si rivolge agli offesi andando verso di loro, abbracciando quella squadra di rugby disprezzata come simbolo di apartheid più a lungo di quanto i fan siano in grado di ricordare. Lo stratagemma funziona, e la conciliazione e l’unità superano le vecchie barriere, andando oltre le migliori speranze del nuovo presidente.
Il film prende il titolo, un vocabolo latino che significa "inconquistato”, invincibile, da una poesia dell’età vittoriana di William Ernest Henley, un verso che ha sorretto Mandela nel corso dei 27 anni che trascorse nel carcere di  Robben Island. E’ una prova di forza, anche aldilà degli apparenti compromessi, quella che offre per ispirare il capitano della squadra di rugby. 

Le circostanze attuali sono ovviamente diverse da quelle del Sudafrica nei suoi primi giorni di governo democratico. E nondimeno gli americani di oggi si identificano nel film. Obama possiede la forza e la capacità di visione necessari a rimanere inconquistato, invincibile, a combattere per i principi progressisti, nonostante il suo spostamento al "centro” nella sanità e nella riforma economica interna, le richieste limitate e i magri frutti del suo intervento al Summit sul clima di Copenhagen, e la sua decisione di protrarre una guerra già portata avanti per anni in modo discutibile e in un’area del mondo nota come il "cimitero degli imperi”? 
Le sfide che aspettano il nostro riflessivo ed eloquente giovane presidente sono schiaccianti, ed è quindi giusto celebrare le vittorie man mano che arrivano. 
Un solido 50% dell’elettorato sostiene totalmente la strada intrapresa, nonostante la spietatezza dei tentativi di danneggiarlo, e nonostante i critici a sinistra dovrebbero temperare i giudizi sul suo operato con un po’ di realismo politico. Dobbiamo sostenerlo contro i suoi facinorosi detrattori, e tenere mobilitata una vasta base di supporto per le riforme.
Ma forse, mentre entriamo nel secondo anno di questa presidenza epocale, è arrivato il tempo di affermazioni più forti dall’alto. Le opportunità per cambiamenti sistematici, per sfidare i poteri anti-democratici, rimangono vere in questo periodo di crisi e Mr. Obama deve saperle cogliere con franchezza. Anche mentre cercava un terreno comune, Nelson Mandela era consapevole che alcuni non avrebbero comunque accettato di fare quel passo verso la mano aperta della riconciliazione. 
Gregory Sumner (sumnergd@netzero.com)
Detroit, dicembre 2009