Il 10 dicembre si è tenuto a Forlì un incontro organizzato dai Giovani Ds, dal titolo: “Noi e l’Islam: scontro di civiltà?” a cui hanno partecipato Franco Cardini e Gianni Sofri, di cui riportiamo le relazioni.

Franco Cardini
Per iniziare voglio sottolineare che non sono uno studioso dell’Islam, ma uno che, da quando aveva una ventina d’anni, si è interessato all’Oriente e a quel tipo di cultura. All’università mi laureai in storia e mi specializzai nella storia medioevale dell’Occidente, della quale, siccome avevo questi interessi per l’Oriente, m’incuriosiva particolarmente il problema di come l’Occidente ha vissuto il rapporto con l’Islam; una cosa che pensavo essere marginale mentre oggi, quarant’anni dopo, si trova invece ad essere nell’occhio del ciclone. Per questo, naturalmente, un po’ studioso dell’Islam mi sono dovuto fare, perché, se non sapessi alcune cose -poche- su di esso, non riuscirei a calcolare lo spessore della deformazione che noi ne abbiamo fatto. Il mio, tuttavia, non è un processo all’Occidente: non mi vergogno di essere occidentale, non ho scuse particolari da fare a nessuno, fra l’altro condivido profondamente l’idea ebraica che le scuse le devono fare direttamente quelli che hanno commesso qualcosa a chi ha direttamente subìto e personalmente non mi sento granché responsabile di crociate, di colonialismo, eccetera eccetera. So che la mia civiltà ha operato nel bene e nel male, ne accetto le responsabilità nella misura in cui un singolo se le può addossare, e non mi sono mai fatto illusioni sul fatto che sia la migliore cultura possibile, che il nostro sia il migliore dei mondi possibili: è quello nel quale io sono cresciuto, ne accetto e ne apprezzo alcuni aspetti, altri vorrei che migliorassero. Come ho detto, dal punto di vista accademico sono un medievista, ma le mie ricerche sulla percezione deformata che, a partire dal Medioevo, l’Occidente ha avuto dell’Oriente mi hanno portato a costatare come questa deformazione non abbia mai abbandonato l’Occidente, avendo anzi una sorta di recrudescenza all’incirca dalla fine degli anni ‘70 del Novecento.
In quel periodo ci siamo resi conto che fuori dall’Occidente c’erano grandi trasformazioni di cui noi non ci eravamo accorti. Io sono del 1940, quindi appartengo a una buffissima generazione che per molti anni è andata ripetendosi la fiaba dell’“ormai il mondo è in pace”, una fiaba di cui io un po’ mi vergogno, perché la disinformazione, oltre un certo segno è anche una responsabilità, una colpa. Ma perché ci dicevamo quelle cose? Le dicevamo perché per molto tempo abbiamo impostato la nostra visione del mondo alla luce di un duro e ottuso occidente-centrismo, per cui chiamavamo “pace” quanto a noi occidentali (cioè a noi americani, soprattutto settentrionali, canadesi, sudafricani bianchi, australiani -a livello socio-civile l’Occidente è questo) sembrava tale. Già per l’Europa orientale il discorso era un po’ diverso, se non per la pace perlomeno per il benessere, che non è poco. Anche se sapevamo che c’era stata la guerra in Corea, che c’era quella in Vietnam, che c’erano le guerriglie in America Latina, in Africa, in Asia, noi ci dicevamo: “Che fortuna, dopo il ’45 non ci sono più state guerre…”. E ci sembrava vero, cioè ci sembrava che il tono fondamentale del mondo fosse ispirato alla pace ed il resto fossero fatti episodici della responsabilità dei quali, in fondo, non ci occupavamo. Fu quindi soprattutto nel ’79, con l’ascesa dell’imam Khomeini al governo dell’Iran, che molti di noi si sono risvegliati: il mondo era esattamente il rovescio fotografico di come lo immaginavamo; stavamo vivendo in un mondo di privilegiati circondato da un mare di guerra e di miseria. Molti di noi, a quel punto, pensarono fosse necessario capire, e quindi rimettersi in discussione.
Abbiamo allora cominciato a renderci sempre più conto di una realtà obiettiva, denunziata anche dalla Banca mondiale, dalla Fao, eccetera, e cioè che noi occidentali, noi del nord del mondo, (che siamo circa un miliardo, quindi meno del 20% dei circa sei miliardi della popolazione mondiale) produciamo e gestiamo l’80% delle ricchezze del pianeta. E’ vero che c’è tutto un dibattito tra gli studiosi della cosiddetta globalizzazione, alcuni dei quali dicono che noi le ricchezze le gestiamo, altri invece che le produciamo, e fra produrre e gestire la differenza è importante. Rimane il fatto che l’80% dell’umanità vivacchia col 20% delle ricchezze. Tutto que ...[continua]

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