New York
Tutti dicono che ha poco da spartire con l’America vera: è un universo a parte dove i provinciali vengono in visita come in un paese straniero. A me pare il contrario: è un concentrato d’America dove il bello e il brutto, il buono e il cattivo convivono spalla a spalla.
Appena arrivati ci sistemiamo in un Marriot Hotel di Manhattan e qui apprendiamo che ogni luogo di qualsiasi albergo che non sia la camera numerata è ritenuto suolo pubblico e chiunque può scorazzarvi senza controllo. Guardiamoci bene dall’abbandonare in corridoio borse e valigie. Con una certa inquietudine per non aver messo in cassaforte i miei panni di ricambio, a piedi raggiungo la 5^ Avenue. E’ appena terminata una festa e un’immensa folla olivastra di bassotti grassottelli defluisce agitando bandierine del Portorico. Affonda a mezza gamba fra la cartaccia delle merendine ma decine di spazzatrici se la stanno ingoiando e procedono a ripulire la terra dai rifiuti del Terzo Mondo. Un’intera armata di poliziotti, di tutt’altra stirpe, sorveglia distrattamente il tutto: convivenza razziale. Lì vicino c’è il Rockfeller Center. La pista dove d’inverno si pattina è ora occupata da tavoli di un bar-ristorante. Sul lato ovest straluccica la celebre statua in bronzo dorato del Prometeo, opera di Paul Manship. Non so chi è ma è impossibile scordarselo. Nell’atrio della Twin Tower, dove cerco conforto, c’è una cascata d’acqua che scivola per sei piani lungo il marmo rosa della parete. Complimenti all’idraulico. Poco distante l’Hotel Plaza ostenta le grazie di uno stile rinascimentale francese. Del 1907. Rinuncio alle emozioni dell’arte ed entro nel più grande negozio di giocattoli del mondo. Ci sono bambole che parlano, mangiano, bevono e si tolgono da sole le scarpe e le mutande. E’ molto divertente. Non so per i bambini. Cambio genere ed entro nel tempio di Tiffany dove si sprecano diamanti, rubini e smeraldi in colliers da qualche miliardo. Poiché non c’è nulla a prezzo di svendita (questa N.Y. di tempi magri è piena di esercizi con “sale”) lascio perdere e raggiungo in taxi i grandi magazzini Macy’s. Nel reparto della Ralph Laurent compero tre camicie al prezzo di due in America e di una in Italia. Nei negozi sportivi Herman’s sono in liquidazione solo i calzini. Ragionando coi piedi, mi sembra un affare e ne compero 25 paia.
Poiché mi dicono che in un paio d’ore non potrei avere un’idea soddisfacente del Metropolitan Museum, né del Guggenheim, né dell’American Museum of Natural History, che richiedono almeno un paio di mesi, mi limito, per le cose di qualità, al Lincoln Center. Bellissimo. L’auditorio del Teatro di Stato, racchiuso in un padiglione con cupola di cristallo, è la dimostrazione che non sempre il grandioso contrasta col buon gusto, se l’architetto ci sa fare. Ma non succede spesso.
Occupo i miei pochi giorni a vagabondare senza scopo, evitando la Metropolitana che è troppo frequentata da gente viziosa ai limiti della turpitudine. Ma i taxi sono migliaia e costano poco. Io e le mie nipoti, cui è affidata la mia sorveglianza in ogni sortita americana, visitiamo la Little Italy, sempre più little e sempre meno Italy, e ci inoltriamo a Chinatown. Percorriamo solo la Mott Street perché le altre strade non sono consigliabili: non tutti i cinesi sono prodighi di inchini come il gestore del negozietto che ci ha riempito di magliette. Attraversiamo Harlem in autobus: bidoni della spazzatura rovesciati, vetri rotti, case fatiscenti e annerite dal fumo degli incendi appiccati dai proprietari per sfrattare i neri, riscuotere l’assicurazione e rivenderle allo Stato. Un negro inebetito si contorce come un serpente epilettico ritmando le convulsioni sulle musiche di una radiolina. Niente da fare per il Bronx. Non ci va nemmeno la polizia: è un quartiere autogestito dalle bande di una vivace gioventù. Il Central Park è godibile di giorno ma di notte fa concorrenza a Wall Street per volume di affari. In traffico di droga.
Eppure la notte newyorchese è incantevole. Immersi nella tenebra, contempliamo di lontano, oltre il mobile balenìo dell’acque, le sagome scure dei grattacieli di Manhattan punteggiate di occhietti luminosi. Siamo in piena poesia ma togliamoci di qui. Non si sa mai.
Mi rendo conto che New York è troppo grande per essere compresa tutta dal basso e quindi mi reco all’Island Helicopter. In 20 minuti me la vedo tutta dall’alto: le isole, i parchi, i grattacieli, i ponti, le strade. Una deliziosa picchiata del ...[continua]

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