Scrivo queste note nel momento in cui lo scontro elettorale è al suo colmo. E il colmo, in questo caso, coincide con il livello più basso che il discorso politico abbia mai raggiunto da tempo, soprattutto, è bene precisarlo, ad opera di esponenti grandi e piccoli del centro destra, con presenze, qua e là, di stampo già quasi squadristico. Non importa se queste note arriveranno al lettore a scontro concluso. Varranno come rimeditazione, e Dio sa se materia per riflettervi anche dopo non ve ne sia in abbondanza. Alcune conseguenze dureranno a lungo. Per esempio non sarà facilmente riassorbibile l’effetto di diseducazione che un tal parlare, un tal modo di proporsi avrà prodotto sull’umile gente.
Che dire dell’allarme lanciato proprio in questi giorni da Berlusconi sul pericolo che, in caso di vittoria di quelle che lui chiama le sinistre, sarebbe messo a rischio lo stesso diritto al voto? Seguito dal "questa volta non faremo prigionieri" di Previti? E che dire dell’appello al cosiddetto "voto cattolico"?
Ha ragione Pietro Scoppola (La Repubblica di venerdì 12 aprile) nel chiedersi "se proprio la Chiesa italiana non dovrebbe, per prima, respingere con forza e pubblicamente, in ogni direzione, la strumentalizzazione dell’appartenenza cattolica ai fini del consenso elettorale". IO, meno discreto, aggiungerei il sospetto di una coda di paglia che la trattiene e le impedisce un simile pronunciamento, una coda di paglia lunga cinquant’anni, quanti sono quelli in cui ha tenuto banco un uso religioso del politico e, specularmente, un uso politico del religioso. Senza contare le compromissioni del ventennio precedente. Io ricordo i tempi in cui, alla vigilia di qualche tornata elettorale, planavano sulle nostre parrocchie e sui nostri conventi ben distribuite provvigioni (o vogliamo chiamarle mazzette?). Adesso ci siamo messi a fare i moralisti, anzi a far la morale, ma un moralismo senza memoria autocritica somiglia molto a un alibi. Il moralismo come faccia nobile dell’eterno trasformismo, in cui siamo stati e siamo maestri.
Non è che siano mancate le eccezioni, le voci diverse. Quelle di chi, negli anni del trionfo democristiano, ha denunciato questo non casto né cauto connubio, o se n’è anche solo tenuto fuori, e ne paga tuttora, se è ancora vivo, le conseguenze. Ne so qualcosa.
Ora la Chiesa italiana -ma sarebbe più corretto dire la sua gerarchia- ha scoperto la formula dell’equidistanza. E’ già qualcosa, un’acquisizione, e bisogna accontentarsi. Non senza però domandarci se il compito della chiesa non dovrebbe, non debba essere quello di rivendicare e difendere la propria alterità, il suo collocarsi in una dimensione altra rispetto alla politica. "Ricominciare da Dio", per dirla con Martini. Questa è anche la domanda che sale, a ben guardare, dalle viscere della società, e si affaccia sempre più apertamente nello stesso dibattito culturale, dentro e fuori quelli che un tempo von Balthazar aveva chiamato les bastions de l’Eglise. Soprattutto, ed è significativo, fuori. Dentro, sembra a volte che la chiesa sia soprattutto intenta a se stessa, a fare di se stessa, o di qualche sua istanza, il proprio oggetto, se non il proprio culto.
E’ toccato invece al presidente dell’Azione Cattolica, citato dallo stesso Scoppola, di dire la parola giusta: "il voto cattolico non esiste". Non esiste perché come nozione è scorretta, sia dal punto di vista ecclesiale che da quello politico, così come lo era la nozione espressa con il termine "partito cattolico". Non si può dire: quello è un liberale, quello è un comunista, quello è un reazionario, e via elencando, e quello è un cattolico, come se si trattasse, per gli uni e per l’altro, di connotazioni da porre sullo stesso piano. Nel liberale si può nascondere un cattolico, e così nel comunista, nel reazionario (ci siamo dimenticati di De Maistre e dei suoi nipotini e nipotine?) ecc. Insomma l’appartenenza religiosa non è registrabile tout court come una appartenenza politica.
L’attuale scontro elettorale, non solo a livello di politici, ma anche a livello giornalistico, rappresenta una forte regressione rispetto alle acquisizioni maturate nel corso degli anni dal dibattito sul rapporto tra fede e politica.
Pensiamo a un Emmanuel Mounier, a un Alfonso Comìn, e, più vicino a noi, a un Mario Cuminetti.
Hanno un bell’essersi profusi, i vari Lazzati e quant’altri cresciuti alla scuola di Maritain, a ribadire l’autentica contraddizione in termini costituita da quell’endiadi "partito ...[continua]

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