Padre Camillo de Piaz, servita, fu uno dei protagonisti della Resistenza a Milano e della vita culturale del primo dopoguerra.

Forse è inevitabile partire dalla Resistenza, di cui, peraltro, tanto si è riparlato in questi ultimi tempi, che segnò la sua vita e quella di un’intera generazione.
La cosa che mi preme di più dire, parlando della Resistenza è questa: al di là di ogni legittima discussione postuma, come quelle che si fanno attualmente su di essa, la parola chiave è "necessità". La Resistenza è una cosa che nelle nostre condizioni non si poteva non fare. Erano condizioni in definitiva obbligate, il che, almeno per chi ha voglia e capacità di intendere, anziché sminuirne la grandezza la fa risaltare maggiormente. Che cosa vi può essere di più grande, di più storicamente ed esistenzialmente pregnante, di una necessità che assume la dimensione di una scelta? La cosa appare contraddittoria, ma ci sono dei momenti in cui si danno di queste occasioni che non si possono inventare. E quando sono inventate, ed è successo nel corso di questi ultimi decenni, lo si riconosce anche dal fatto che manca quel fondo di pianto evocato in una delle più struggenti e limpide poesie sulla Resistenza, quella di Elena Bono, che dice: "Piccola Italia non avevi corone turrite né matronali gramaglie, eri una ragazza scalza coi capelli sul viso e piangevi e sparavi"...
Ma prima ancora che della Resistenza bisognerebbe parlare del famigerato 8 settembre, su cui si è sempre, e anche attualmente, esercitata quella che si potrebbe chiamare una passione nazionale: l’autodenigrazione, il lamento, l’invettiva, oggi più che mai di moda fino alla sazietà, su una nostra congenita irreparabile propensione allo sbracamento e allo sfacelo. Una passione celebrata da presunti maîtres à penser che sembrano di passaggio in Italia, abitatori di una specie di Atlantide immaginaria che non fanno altro che portare acqua al mulino del catastrofismo della destra. Una passione cui non ho mai preso parte. Sono piuttosto portato, soprattutto per quel che riguarda emblematicamente l’8 settembre, al contrario: al riconoscimento, cioè, dell’infinita ricchezza di risorse e di capacità di riscatto del nostro popolo. La mia memoria e anche la mia esperienza di vita inclinano di più verso questa seconda interpretazione. Per me e per il gruppo di amici, tra cui padre Davide Turoldo, col quale abbiamo dato vita in quei giorni a un foglio, L’uomo, che ebbe un suo posto e svolse un suo ruolo nella stampa clandestina, l’8 settembre è rimasto un punto di riferimento carico di significati, un kairós inteso in tutta la possibile estensione e ricchezza di termine: quel ritrovarsi innumerevole, molteplice, corale, "di un popol disperso" e tradito, quel grandioso momento di verità e di identificazione nella sventura, nell’umiltà, nel reciproco soccorso, nella misericordia, ma anche nella speranza di una rinata, e per taluni nuova ed esaltante, volontà di resistenza e di riscatto.

E di fatto, poi, i lunghi 20 mesi che seguirono, mesi di piombo se mai ve ne furono o ve ne siano stati in seguito, furono effettivamente resistenza e riscatto che, per la maggior parte di noi, per quelli della mia generazione, giovani come eravamo, impediti fino ad allora nel nostro maturare dalle strettoie del fascismo, fecero a tal punto tutt’uno con la nostra "educazione politica" e non soltanto politica, da lasciarci segnati e giudicati per sempre.
Ne restò segnato anche il vostro cristianesimo?
Per padre Davide e per me, in quell’esperienza maturò un modo di intendere la Chiesa che praticammo e vedemmo praticare da tanti, in gran parte anche non credenti, in quel tempo: un modo "anticorporativo", secondo cui la sorte di un membro della Chiesa, che fosse semplice fedele o interno ai suoi quadri, alla sua gerarchia, non doveva e non deve contare e fare sussultare la Chiesa stessa più della sorte di qualsiasi altro. La condizione di cristiano, o di prete, non può allora essere costruita su una manomissione o sottrazione della propria qualità originaria di uomo, di laico, di cittadino, all’occorrenza di compagno, così come la fortuna della Chiesa non può essere costruita sulle défaillances o rovine altrui. La Resistenza, allora, con gli attraversamenti che comportava, conteneva in sé, fra le tante, anche questa valenza liberatoria nei confronti di un comportamento che era stato, o era apparso, proprio di larga parte del mondo cattolico ed ecclesiastico ufficiale durante gl ...[continua]

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