Asher Salah risponde a Francesco Papafava che gli aveva trasmesso, con un fervoroso commento concorde, l’articolo di Khaled Fouad Allam “La politica non divida la cultura”, apparso su La Stampa del 20 febbraio scorso.

Caro Francesco, il tuo messaggio è capitato con una sorprendente sincronia di pensiero e mi ha effettivamente rinfrancato in un momento di incertezza. Infatti ho deciso di non partecipare a un convegno che si terrà a Parigi venerdì prossimo, pur essendo invitato (e spesato) in compagnia di personaggi di rilievo della cultura francese, in quanto mi si chiedeva, in via preliminare, di esprimere un giudizio favorevole all’iniziativa di boicottare le università israeliane, cosa che non mi sento di fare e non certo per un senso di lealtà verso un’istituzione che peraltro non me lo impone. Come tu ben sai, non credo che il mondo accademico sia del tutto esente da responsabilità nei confronti della attuale situazione politica di Israele e assisto con preoccupazione agli albori di quella che potrebbe essere una forma di maccartismo accademico con la conseguente epurazione dalle università di elementi contestatari come Pappe e forse dopo di lui di altri ancora. Tuttavia sono convinto che l’università israeliana resti uno degli ultimi spazi in cui è possibile formulare un pensiero critico e lavorare liberamente a progetti comuni israelo-palestinesi (come quello per una riforma dei libri di testo del nostro amico Sami Adwan). Il boicottaggio, oltre ad essere ipocritamente moralista (a questo punto per coerenza bisognerebbe osteggiare ogni istituzione accademica russa, per quanto succede in Cecenia, e americana, per l’attacco ingiustificato all’Iraq) rischia di condannare definitivamente una delle poche piattaforme di dialogo ancora esistenti in Israele, dove è ancora possibile sentire voci dissidenti che mettono, nel loro piccolo, in crisi la doxa sharoniana (non molto diversa nei suoi stilemi e manifestazioni "di volgo" da quella bushiana e berlusconiana). Purtroppo, in quanto israeliano, non mi è concesso esprimere pubblicamente questi miei dubbi, verrei subito sospettato di "connivenza con il regime", un assurdo per chi conosce le mie opinioni, che cerco, per quanto me lo concedono le mie scarse risorse intellettuali, di mantenere libere da pregiudizi d’appartenenza a questo o quell’altro gruppo. Quello che mi preoccupa è che non sia rimasto più molto spazio per quella che Croce chiamava la “logica dei distinti” mentre trionfa (in tutto l’Occidente e purtroppo anche in seno alla sinistra che si considera illuminata) la logica degli opposti. Grazie quindi ancora una volta della tua lettera, Asher.

Questa la lettera che ho mandato agli organizzatori del convegno:

Cari amici,
Vi ringrazio per avermi invitato a partecipare a questo incontro sul tema del boicottaggio contro le istituzioni universitarie israeliane. Devo tuttavia esprimere subito il mio disagio rispetto a questo forum. In effetti, devo questo invito al fatto di essere israeliano e questo mi pone in una situazione abbastanza scomoda, vero e proprio letto di Procuste. Da una parte non rappresento in alcun modo Israele e le mie opinioni anche in seno alla sinistra, o cosiddetta sinistra israeliana, sono assolutamente minoritarie e marginali, se non addirittura del tutto individuali.
Purtroppo il mio diritto di parlare deriva dal fatto che vivo in Israele: la maggior parte di voi sono venuti ad ascoltare la voce di un “buon” israeliano o di un israeliano “che si ribella”. Tuttavia non ci sono buoni o cattivi israeliani, e non occorre essere un esperto della malafede sartriana per sapere che molto poco separa il “mascalzone” dal “bon naïf” (i “cattivi” purtroppo esistono con più facilità e li conosciamo, mentre i “buoni” peccano spesso di umanismo a buon mercato e manifestano una buona coscienza acquisita senza sacrificio).
Vorrei quindi che il mio intervento fosse apprezzato come quello di una persona, indipendentemente dalla sua origine, che cerca di pensare in altro modo, libero da ogni costrizione imposta dal consenso e dalle affiliazioni settarie. Ma questo è molto facile da dire e quasi impossibile da fare. E’ vero che rifiuto di fare il servizio militare nell’esercito israeliano fintanto che si persegue una politica di repressione nei Territori occupati e che questo mi pone dei problemi sia nella mia vita privata che nella mia vita sociale e professionale. D’altra parte pago le tasse in Israele e lavoro c ...[continua]

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