Nel dare inizio ai nostri lavori, con questo incontro tra uomini liberi che si confrontano per aiutare la comunità dei popoli a fuggire dalla barbarie della sopraffazione, intendiamo consentire un confronto che superi le arroganze della forza e stabilisca il libero giudizio della ragione. Ragione che immaginiamo incapace di cospirare e non sospettabile di fare propaganda.
Scriveva Erasmo da Rotterdam: “C’è molta più gloria a costruire città che a distruggerle”. E Baruch Spinoza un paio di secoli dopo rifletteva con concreta intensità “La pace non è assenza di guerra. È una virtù, uno stato d’animo, una disposizione alla benevolenza, alla fiducia, alla giustizia”.
E in un mondo nel quale la paura della catastrofe atomica cresce di anno in anno, si fa più serrato il confronto tra i pensatori utopisti, secondo i quali, in ragione della stessa smisuratezza del pericolo, si deve uscire per sempre dalla civiltà della guerra e i pensatori realisti secondo i quali il bene della pace, anche oggi come sempre, può essere custodito solo dall’equilibrio delle forze in campo.
Poi esistono le teorie di coloro che pur praticando il realismo, di cui Niccolò Machiavelli era sostenitore, cercano di integrare le ragioni dell’utopia e la prontezza organizzativa delle armi, strumento primo della virtù di un principe, cioè del potere politico.
Da una parte il filosofo inglese Thomas Hobbes che parlava di “bellum omnium erga omnes” (la guerra di tutti contro tutti ) e perciò auspicava la realizzazione di una società nella quale la legge fosse a tutela di tutti i cittadini e di obbligo rispettata anche dal sovrano. Dall’altra il presidente Usa John Kennedy che il 25 settembre 1961 all’assemblea dell’Onu rifletteva: “L’umanità deve porre fine alla guerra o la guerra porrà fine all’umanità. Ogni uomo, donna e ragazzo vive oggi sotto la spada nucleare di Damocle sospesa al più tenue dei fili, che può essere reciso da un momento all’altro per un incidente, per un errore di calcolo, per un gesto di follia. Le armi di guerra devono essere eliminate, prima che esse eliminino noi”. L’enunciato drammatico, ma la politica di potenza della Guerra fredda in quegli anni sembrava incoerente con queste parole.
Se la storia spesso viene interpretata come un fiume rovinoso, oggi anche Machiavelli dovrebbe ragionare sul fuoco atomico, contro il quale nessun argine vale e nessun provvedimento che non sia l’estinzione dell’umanità.
Le condizioni di fatto sono radicalmente mutate. Il nostro pianeta si trova di fronte al dilemma: o mutare il modo di pensare o morire.
L’unità del genere umano è ormai una verità economica. L’interdipendenza che lega il Sud e il Nord del mondo svela che non è il Sud a dipendere dal Nord, ma il contrario. L’economia dello spreco è resa possibile dalla metodica rapina a cui il Sud è sottoposto, anche perché esiste un nesso causale tra la politica degli armamenti e l’aggravarsi della spaventosa piaga della fame. La morte per fame non è un prodotto dell’avarizia della natura o dell’ignavia degli uomini, ma il prodotto della struttura economica internazionale, che riversa un’immensa quota di profitti nell’industria delle armi. Gli uomini e le donne che, magari solo come elettori, tengono in piedi questa struttura di violenza, non hanno più la coscienza tranquilla.
L’imperativo morale della pace, ideale da sempre necessario, forse irrealizzabile, è arrivato a coincidere con l’istinto di conservazione.
Il rapporto tra l’uomo e il suo ambiente fisico non può più essere quello che è stato.
L’ideologia dello sfruttamento illimitato della natura si capovolge ormai contro i suoi fautori. La passione ecologica è un capitolo importante della cultura della pace, e non deve trasformarsi in velleitario lirismo più adatto al giardinaggio.
Un altro capitolo importante della cultura della pace è l’emancipazione femminile, la cui negazione è strumento di tragica violenza documentata quotidianamente dalla cronaca (Iran, Arabia Saudita, Pakistan, Afghanistan). Violenza con la quale la donna è tenuta al di fuori degli spazi in cui si crea la storia, tanto da impedirle perfino di frequentare la scuola.
Senza la “pace perpetua” in una sua stupenda riflessione Emanuele Kant spiega che “si delinea la fine della storia”.
 Credeva che dopo di lui le cose sarebbero andate meglio. Così non è stato. Tocca all’uomo del nostro tempo invertire il senso della vita sul pianeta Terra.
Le massime indicate da Kant per assicurare la pace perpetua sono:
-Non stringere trattati di pace che seminino i germi di nuove guerre.
-Nessuno Stato indipendente deve essere incorporato da altri e nessun Stato deve usare la forza o l’inganno interferendo negli affari interni di altro Stato.
-Bisogna abolire gli eserciti permanenti.
-La pace non è un fatto naturale, ma può essere conseguita solo alla condizione che ogni Stato abbia una costituzione repubblicana, fondata sulla libertà, sulla dipendenza di tutti i cittadini da un’unica comune legislazione, quindi sull’uguaglianza di tutti i cittadini.
-Il diritto internazionale deve fondarsi su una federazione di liberi Stati, desiderosi di stringere tra loro una “Lega della Pace”, per garantire il rispetto dei diritti reciproci e bandire la guerra.
-La politica di uno Stato non deve temere di palesare pubblicamente la propria azione, quel che viene fatto in segreto prepara arbitrio e inganno.
-Il diritto cosmopolitico deve essere limitato alle condizioni di una universale ospitalità.
Su questo punto nel 1795 Emanuele Kant rifletteva con spirito utopistico e profondo realismo, che ci riempie di ammirazione per questo pensiero che ci incoraggia a tenere lontano da noi sciocche e disumane discriminazioni.
Spiega Kant: “Ospitalità significa il diritto di uno straniero che arriva sul territorio di un altro Stato di non essere da questo trattato ostilmente. Può essere allontanato, se ciò può farsi senza suo danno, ma, fino a che dal canto suo si comporta pacificamente, non si deve agire ostilmente verso di lui. Non si tratta di un diritto di ospitalità, cui si può fare appello, ma di un diritto di visita, spettante a tutti gli uomini, cioè di entrare a far parte della società in virtù del diritto comune al possesso della superficie della terra sulla quale, essendo sferica, gli uomini non possono disperdersi isolandosi all’infinito, ma devono da ultimo rassegnarsi a incontrarsi e a coesistere”.
Così l’uomo del nostro tempo non può ignorare questo profondo valore umanitario. La cosciente buona volontà che l’uomo deve immettere nei rapporti solidali tra gli uomini e tra i popoli.
Papa Giovanni XXIII nelle sua enciclica “Pacem In Terris”, documento fondamentale nella storia della cultura moderna, ebbe a scrivere: “Oggi è fuori dalla ragione (alienum a ratione) affermare che sia possibile risolvere i conflitti tra i popoli con l’uso delle armi”.
So che possiamo chiederci di riflettere sulle nostre responsabilità per un dialogo approfondito sulla civiltà della pace, per auspicare un cambiamento di rotta.
Il lavoro sarà lungo. Ma è impegno che dobbiamo alle nuove generazioni con uno slancio duraturo.
A Genova si continua un concreto impegno che è la cifra fondante di una città presente nella storia mondiale per la sua solidale generosità.
Federico Nietzsche filosofo, oggetto di analisi controverse, che trascorse qualche anno della sua vita nella nostra città, ci ha lasciato una riflessione lusinghiera: “Abito nella città di Colombo, Paganini, Mazzini”. I suoi vicini di casa lo chiamavano il “piccolo santo”. Nelle lunghe passeggiate che compiva sulle montagne della riviera, racconta di avere incontrato Zarathustra, il profeta persiano, che predicava la circolarità della storia: si vive, si fa l’amore, si muore. Attraverso le dure leggi di una vita sempre uguale a se stessa. Noi siamo stati educati alla cultura del Cristianesimo: la venuta di Gesù Cristo avrebbe dovuto contribuire a cambiare il cammino progressivo della storia. Così come ci siamo formati alla cultura della corrente filosofica del “Positivismo” che nell’Ottocento davanti alla rivoluzione industriale profetizzava, attraverso le conquiste della tecnica, una società più umana, più solidale nel superare i contrasti tra utopia scientifica e i conflitti tra uomini crudeli e violenti. Anche Carlo Marx, grande più come economista che come filosofo, ereditava dalla visione biblica messianica l’idea d una storia possibile, rispettosa dell’umanità degli sfruttati, ma necessariamente scossa da un ineluttabile conflitto rivoluzionario.”Proletari di tutto il mondo unitevi” era il suo esaltante invito a creare un mondo senza ingiustizie, lontano dallo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Già negli anni della guerra civile americana (1862-65) i prodotti della tecnologia, dal sommergibile alle più moderne armi da fuoco, provocarono migliaia di morti .
Per non parlare della prima guerra mondiale: dai cannoni Krupp che sparavano a 30 km di distanza ai gas velenosi che distrussero molte città europee. Era la crisi della visione pacifica del progresso, attraverso la scienza. La crisi della filosofia approdò alle disperate e angosciose valutazioni di una filosofia della crisi sulla quale campeggiano, da allora, solitudini e disperate tensioni individuali. Martin Heidegger, filosofo sostenitore del nazismo, ebbe a scrivere un secolo fa parole profetiche sulla tragica sudditanza dell’uomo moderno dalla tecnologia. Scevro di ottimistiche certezze predicava con vigore tragico che “l’unica certezza del vivere è l’appuntamento con la morte”. Il progresso della scienza non ha garantito nell’ultimo secolo prospettive di pace. L’itinerario della storia non ha ripetitività circolare, secondo la visione di Nietzsche ereditata dal mondo greco, nella quale ogni risorsa era affidata all’uomo nichilista, impegnato ad amare il proprio Fato (amor fati).
Ma neanche l’evoluzione migliorativa auspicata dal cristianesimo o dallo storicismo ha trovato compiuta realizzazione. Come in natura l’evoluzione, così la storia ha percorsi bizzarri e non omogenei. L’uomo del nostro tempo deve intraprendere nuovi e più duri itinerari
Nell’augurare a noi tutti buon lavoro mi permetto di pensare, con ottimistica allegria, che l’impegno sarà anche nei prossimi incontri ,di cercare di lasciare il mondo migliore di come lo abbiamo trovato.
Relazione introduttiva alla conferenza “Genova città della pace”, promossa in collaborazione con la capitale olandese dell’Aja tenutasi in Liguria 8 maggio scorso.