“Dove alloggiasse poteva accadere facilmente che mancasse il pane, il vino, la carne, e il sale, ma non accadde mai che mancasse il caffè. Quell’uomo solito a vivere con tre o quattro fichi secchi e con una merluzza acerba o con pochi chicchi di formentone avrebbe sofferto le pene atroci di inferno, se gli fosse mancata una tazza di caffè”. Così racconta Giuseppe Bandi un momento privato della vita del personaggio più coraggioso, più amato della storia d’Italia: Giuseppe Garibaldi. Nel volume di Alfonso Scirocco (Laterza) a lui intitolato si trova la narrazione di una vita che, scrissero i tedeschi “aveva bisogno di un nuovo Omero per essere narrata”. E Giovanni Spadolini, opulento primo ministro, in un impeto normale di passione risorgimentale ebbe a dire che “le camicie rosse dei garibaldini e il loro eroismo evocavano l’ardimento dei tigrotti di Mompracem” nati dalla fantasia di Emilio Salgari. In un miscuglio di realtà e fantasia, che insieme hanno segnato e la storia e la cultura del nostro paese.
Ricorrono 140 anni dalla sua morte nel giugno del 1882 nell’isola di Caprera, suo rifugio solitario per più di vent’anni. La sua impresa più straordinaria: la conquista dell’italico regno con la spedizione dei Mille. Dallo scoglio di Quarto, periferia di Genova, arrivarono fino a Teano imbattuti dai Borboni. Erano 1.162. Nel 1878, con ritardo burocratico, ne furono registrati 1.089. C’erano tra loro 250 avvocati (professionisti che hanno sempre inquinato la politica fin dai tempi del collega Robespierre), 100 medici, 50 ingegneri e capitani di mare, 20 farmacisti, 100 commercianti, 10 artisti, qualche prete. Anche una donna molto bella, Rosalia Montmasson, inglese, furbescamente vestita da uomo, sposata con l’ambiguo Francesco Crispi. La maggioranza settentrionali, i più numerosi i bergamaschi (163) e i liguri (154), il più anziano Tommaso Parodi,  genovese di settant’anni, il più giovane Giuseppe Marchetti di Chioggia, partito con il padre, aveva solo 11 anni. Solo 150 hanno la camicia rossa, frutto pare di furti di stoffa su navi del Sud America. Gli altri, Garibaldi li definirà “vario vestiti”. Nel porto di Genova, tra gli scaricatori (camalli) avevano precedenza nelle assunzioni i nati a Bergamo, e le donne genovesi gravide andavano a partorire in quella città.
La spedizione era stata macchiata dall’eccidio dei poveri proletari (definiti “ i berretti”) di Bronte che si erano ribellati contro il potere dei ricchi aristocratici e borghesi (definiti “i cappelli”). Fu mandato Nino Bixio, ci furono arresti di massa, giudizi sommari, fucilazioni immediate. Tutto dettato dal timore che le rivolte sociali compromettessero la guerra contro i Borboni. La conquista del sud fu un trionfo, ma fu fermata a Teano dal re Vittorio Emanuele II (“l’incontro di due re” fu definito) che temeva Garibaldi potesse puntare su Roma.
Victor Hugo ebbe a scrivere: “Garibaldi uomo dell’umanità”. Il presidente Lincoln gli offrì il comando di un corpo d’armata degli Stati del Nord, nella guerra di secessione. Fu ospite a Londra della città in tripudio per lui, con code di belle donne che volevano conoscerlo biblicamente. La sua fama di affascinate avventuriero era nota. Ma per questo fu cacciato.
L’idea di “O Roma o Morte” non l’aveva abbandonato. Nel 1862 ritornò sui passi della spedizione di Mille. Ma non aveva uno stato alle spalle che lo proteggesse. Anzi Vittorio Emanuele II era preoccupato che gli alleati francesi si indispettissero.
Attraversò lo stretto e si diresse, mal guidato, verso l’Aspromonte. I suoi compagni d’avventura non avevano provviste, mangiavano patate rubate nei campi dei contadini spaventati. Garibaldi fu ferito da due pallottole del corpo di spedizione regio. Una ferita alla coscia sinistra e una al collo del piede destro. Le grida sulla notizia interruppero lo scontro: cinque morti tra i garibaldini, sette tra i regi. Garibaldi chiese, ma non ce ne fu bisogno, che gli amputassero la gamba. In barella fu portato a Scilla, caricato sulla pirofregata “Duca di Genova” con un paranco “come i buoi”, scrisse. Fu tenuto prigioniero ospedalizzato nel forte di Varignano vicino a La Spezia. Lo aspettava la Terza guerra di indipendenza (1866) con la vittoria di Bezzecca, mentre i regi perdevano a Mentana e a Lissa contro la flotta austriaca di modernità straordinaria contro la quale poco poterono i velieri italiani. L’ammiraglio Persano fu il capro espiatorio di una organizzazione militare inadeguata. Ci fu ...[continua]

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