Per mettere a fuoco le tracce di politica antitotalitaria in Italia nella seconda metà del Novecento occorre far riferimento al Partito socialista. Da cento anni, e specialmente nel Secondo dopoguerra, sul socialismo italiano ha pesato la contiguità con il Partito comunista. Nel pre-fascismo il conflitto riguardò la contrapposizione fra il gradualismo riformista di Filippo Turati e il massimalismo di Costantino Lazzari, influenzato dalla rivoluzione bolscevica. Nei primi anni della Repubblica la strategia del fronte popolare ha condizionato la politica socialista anche dopo la fine del patto di unità d’azione Pci-Psi (1956) seguita al XX congresso del Pcus e alla rivolta dell’Ungheria: l’unità tra i due partiti della sinistra ha però contribuito alla frammentazione del Psi in correnti  fino alla dissoluzione nel 1994. L’assedio del Partito comunista si fondava sulla polemica teorica e politica che demonizzava la socialdemocrazia (“social fascismo”) secondo il canone della Terza Internazionale.
L’effetto della lunga contesa, alimentata dalla potente macchina nazionale e internazionale comunista, ha prodotto in Italia anche la divaricazione tra il popolo socialista e quello socialdemocratico, che dal 1947 si riconosceva in Giuseppe Saragat. Gli elettori socialisti erano influenzati dalla propaganda comunista, che dipingeva i socialdemocratici come nemici del popolo, parafascisti, e pronti a sostenere il golpismo americano. E gli elettori socialdemocratici, anche nel centro-sinistra, continuavano a ritenere i socialisti pronti ad accettare l’egemonia frontista dei comunisti. Il contrasto comunisti-socialisti ha così contribuito alla debolezza del Psi fino alla metà degli anni Settanta. Nel 1947 il Fronte popolare di Togliatti e Nenni portò alla scissione del “socialismo occidentale” di Giuseppe Saragat; e negli anni Sessanta l’avversione comunista al centro-sinistra contribuì al fallimento della unificazione Psi-Psdi con il conseguente indebolimento della componente riformista dei governi del tempo.     

La rottura tra socialisti e comunisti
La fine dell’influenza del Pci sulla politica del Psi si è verificata con la leadership di Bettino Craxi. Il giovane socialista “autonomista” (nato nel 1934) era cresciuto nel movimento universitario Ugi e nel Psi dei consigli comunali dell’area milanese dove aveva partecipato al tentativo di unificazione con i socialdemocratici. Era l’esponente di una corrente marginale, quella degli “autonomisti”, cioè di coloro che  sostenevano da sinistra una politica autonoma rispetto al Pci. Quando nel luglio 1976 Craxi fu eletto segretario nazionale del Psi, si riteneva che fosse un personaggio di transizione non avendo dietro di sé una forte corrente. E, invece, il pupillo del vecchio Nenni, in poco tempo divenne il leader socialista di maggior rilievo della storia repubblicana in grado di trasformare il Psi da forza divisa tra correnti litigiose nel “partito di Craxi”.
Il periodo iniziale della sua segreteria fu connotato da una svolta teorica che investiva l’intero partito rendendolo un concorrente, per quanto minore, del partito comunista. Il quarantenne milanese contestò il Pci per la sua tradizione legata al leninismo, quindi la stessa origine ideologica del comunismo italiano. Il Pci della via nazionale di Togliatti e del compromesso storico di Enrico Berlinguer, nonostante avesse abbandonato qualsiasi strategia per così dire “rivoluzionaria”, non affrontò mai una revisione del comunismo e un reale distacco dall’Unione Sovietica. Al rifiuto dello stalinismo, praticato con ambiguità negli anni Cinquanta, non era seguito alcun ripensamento ideologico come nei grandi partiti socialisti europei, a cominciare dalla Spd tedesca che aveva abbandonato a Bad Godesberg il  marxismo-leninismo. La via nazionale secondo la linea Gramsci-Togliatti-Berlinguer non si era mai convertita all’antitotalitarismo che fin dagli anni Trenta era stata la linea discriminante tra i socialisti/socialdemocratici europei e i comunisti filo-sovietici.

Il Vangelo socialista
Craxi fece quel salto: si proclamò anti-totalitario come lo può essere un leader immerso nella politica quotidiana. Al congresso del Psi di Torino del marzo 1978, due settimane dopo il rapimento di Aldo Moro, presentò un “Progetto” all’insegna dell’autonomia e dell’alternativa socialista “possibile solo con un Partito socialista più forte e più autonomo nel quadro dell’Europa occidentale, dei suoi valori, delle sue is ...[continua]

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