Cari amici,
il 10 maggio sarà d’ora in poi la giornata internazionale dell’argan grazie alla deliberazione del 3 marzo scorso da parte dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite su iniziativa del Marocco. Si riconosce dunque ulteriore valore all’albero endemico marocchino già definito patrimonio culturale immateriale dell’umanità per la cultura ancestrale che rappresenta e per i benefici che la valorizzazione di questo tesoro della biodiversità arreca non solo nel settore della nutrizione e della cura, ma pure nell’organizzazione sociale favorendo una certa ridistribuzione del reddito nelle zone rurali che vede le donne protagoniste di processi di emancipazione.
Ho già altre volte raccontato delle cooperative femminili che raccolgono e trasformano le noci dell’argan producendo il preziosissimo olio, apprezzato in tutto il mondo per le sue qualità organolettiche, per l’utilizzo nella cosmesi, nelle cure dermatologiche e non solo. E della straordinaria intelligenza di quest’albero “preistorico” sopravvissuto miracolosamente in pochi luoghi al mondo e produttivo solamente in Marocco, lungo le coste atlantiche e ai piedi dell’Atlante. Un albero che sa morire di morte apparente per resistere ai periodi di dura siccità e perde le spine quando cresce protetto tra le mura di un cortile. Non posso che gioire con queste donne coraggiose che hanno sfidato il patriarcato dei loro villaggi e il maschilismo tradizionale, vincendo la loro battaglia anche grazie al successo internazionale della loro produzione.
In epoca di pandemia mondiale in cui quasi tutto l’umano rallenta o si ferma è la natura che sembra approfittarne e rifiorire più florida che mai, come per altro mi scrive dal suo splendido “giardino atlantico” lo scrittore e botanico Umberto Pasti, confinato anche lui come tutti, ma più fortunato per esserlo in giardini che “non sono mai stati così fioriti e rigogliosi, così pieni di vita. Rohuna è diventata un alberghetto di usignoli e a Tangeri si è riseminato di tutto”. È lui stesso a confermarmi che la campagna di vaccinazione in Marocco procede rapida ed efficiente, comprendendo i residenti stranieri e avendo essa ormai raggiunto i sessantenni. Si sono superati i quattro milioni di vaccinati e addirittura più di tre milioni hanno ricevuto la seconda dose. C’è da chiedersi se non sia stata anche una buona strategia quella della cura con farmaci che invece in Europa sono stati abbandonati molto rapidamente tra le polemiche, come la clorochina. Non si può tacere della relativa giovinezza del popolo marocchino messo a confronto con quelli europei, né tanto meno della maggiore forza del sistema immunitario di genti meno protette dal punto di vista igienico-sanitario e meno benestanti di noi europei. Resta il fatto che le vittime da Covid in Marocco sono davvero poche anche proporzionalmente in confronto a quelle, per esempio, italiane o inglesi. Si tratta di meno di novemila persone decedute su meno di cinquecentomila contagiati in un paese di più di trentacinque milioni di abitanti. Tra l’altro domenica 28 marzo, per la prima volta dall’inizio della pandemia, nel paese non si sono registrate vittime causa Covid.
Tornando alla natura, c’è un’altra notizia che potrebbe rendere felici gli amanti delle terapie naturali e delle piante mediche: il riconoscimento che il governo marocchino si appresta a dare alla coltivazione e commercializzazione della cannabis a uso terapeutico. Una scelta sorprendente per un governo dominato almeno nella forza numerica dal partito Giustizia e Sviluppo, un partito islamista moderato dalle forti radici tradizionaliste, guidato fino a qualche anno fa dal forse ultimo leader carismatico della politica marocchina, Benkirane. È stato lui stesso, dal buon ritiro post impegno governativo cui fu pressoché costretto dopo la mancata formazione del suo terzo governo nel 2016, a fare forte pressione nel suo partito contro questa scelta, che in effetti tarda ad essere resa operativa, nonostante Benkirane abbia alla fine ritirato le annunciate dimissioni dal partito. L’erba miracolosa delle ripide e inospitali montagne del Rif non pare tuttavia beneficiare delle politiche produttive degli ultimi anni, con la progressiva sostituzione delle piante locali in favore di più produttive sementi importate, apparentemente più redditizie, ma dal consumo idrico molto maggiore e qualità organiche decisamente minori.
Il vero problema risiede nell’organizzazione socio-economica della regione intere ...[continua]

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