Giovanni Damiani, biologo, è esperto in ecologia ambientale. È stato uno dei leader regionali e nazionali dei Verdi. Già consigliere regionale e assessore all’ambiente della Regione Abruzzo, è stato direttore generale dell’Anpa (Agenzia nazionale per la protezione dell’ambiente, oggi Ispra), componente della commissione nazionale per le Valutazioni dell’impatto ambientale al ministero dell’ambiente e direttore tecnico dell’Arta (Agenzia regionale per la tutela dell’ambiente).

Tu sei un biologo e uno studioso dei fiumi. Puoi aiutarci a capire le cause all’origine dell’alluvione che ha colpito la Romagna nelle scorse settimane?
Ci sono due canali di ragionamento. Il primo è senza ombra di dubbio il fatto che c’è una crisi climatica che comporta, tragicamente, grandi periodi di siccità e ondate di calore e periodi di alluvioni con piogge intensissime. Queste piogge devastanti oggi sono aumentate di frequenza. C’è chi dice che precipitazioni simili si sono verificate anche in passato: è verissimo, ma mentre una volta erano ritenuti eventi assolutamente eccezionali, che quindi si potevano riproporre sulla scala di qualche secolo, oggi invece abbiamo crisi ricorrenti e quindi micidiali. L’esondazione del fiume Misa, solo un anno fa, a Senigallia, ha fatto tutti i danni e le vittime che sappiamo.
Questo significa che, se non mettiamo mano con determinazione alla crisi climatica, da una parte avremo l’intensificazione della frequenza di questi fatti e, superati due gradi medi di aumento termico globale, la situazione andrà fuori controllo e vedremo anche cose nuove, come l’innalzamento del livello dei mari e altro che oggi neanche immaginiamo. Tutto è collegato, comprese le pandemie e le fitopandemie, con riflessi anche sociali ed economici molto importanti.
L’allarme è stato lanciato fin dal 1970 dal mondo della scienza, poi “ufficialmente” all’Earth Summit indetto dall’Onu nel 1992 a Rio De Janeiro, su Ambiente e Sviluppo, ci sono state negli anni ventisei Conferenze delle parti (l’ultima, la Cop 26 a Glasgow) ma non è stato fatto praticamente niente di significativo. Oggi siamo dentro la crisi con tutti e due i piedi e siccome il sistema climatico è molto lento a reagire, ci vuole un adattamento. Un tempo, quando sentivo parlare di adattamento, pensavo: ma quale adattamento? Noi dobbiamo risolvere i problemi, non adattarci alle negatività. In realtà non è così perché i dati scientifici nel frattempo hanno mostrato che la lentezza delle risposte è tale che noi siamo già entrati in una fase in cui, sempre che adottiamo tutte le strategie per contrastare la crisi climatica e invertire la tendenza, almeno per un secolo avremo seri problemi di questo tipo.
Quindi bisogna anche adattarsi. Nel contempo però bisogna operare per invertire il trend e quindi lottare contro i combustibili fossili, contro l’incremento della CO2 e degli altri gas climalteranti. Questa è la prima cosa.
Il secondo canale di ragionamento è che il suolo su cui oggi piove non è quello di cento anni fa, bensì un terreno assai asfaltato, edificato, capannonizzato, modificato in maniera drammatica, compattato da pratiche agricole meccanizzate.
La filosofia che ha retto gli interventi degli ultimi decenni è stata quella di allontanare l’acqua con bonifiche spesso volte a ricavare degli utili sul terreno conquistato e che sono arrivate a mettere mano ai fiumi. I corsi d’acqua sono stati sagomati in maniera geometrica con ripetuti interventi e con imponenti fondi pubblici. Sono stati rettilineizzati, privati della loro vegetazione e soprattutto sono stati ristretti nelle sezioni. È evidente che questo restringimento aumenta la velocità di corrente e quindi aumenta la violenza con cui si verifica una piena.
Quindi il primo punto è capire -soprattutto in periodi di crisi climatica- che abbiamo sottratto lo spazio vitale dei fiumi e li abbiamo trasformati in autostrade di cemento impedendo l’interscambio con le falde, dove l’acqua scorre il più velocemente possibile.
Qual è il risvolto di tutta questa vicenda? È che, avendo conseguito una vittoria sull’acqua, cioè avendola allontanata il più velocemente possibile, quando smette di piovere, in pochissimo tempo tutto si prosciuga e arriva il periodo di siccità. Ma pensa a cosa succede nelle città. Tutto l’asfalto che si vede, la lastricatura, i piazzali, i tetti scolano acqua che viene immessa nel sistema fognario per poi dirigersi verso il mare. Dopodiché arriva l’estate e ci lamentiamo della grande siccità e della mancanza d’acqua.
Ora, al di là delle singole situazioni, che sono sicuramente diverse in tema di permeabilità, bisogna sapere che il serbatoio idrico più grande che esista al mondo è il sottosuolo e che tutta la nostra civiltà ne ha goduto.
Il sottosuolo riesce a contenere più acqua della somma di tutti i fiumi e di tutti i laghi e di tutta l’acqua atmosferica del mondo. È un serbatoio gratuito che sta lì sotto e dove dovremmo mandare il grosso dell’acqua ovunque possibile. Questo purtroppo non avviene. L’alterazione del ciclo dell’acqua dipende anche dal modello di sviluppo, dalla filosofia di rettilineizzare e velocizzare. Ma l’acqua non ha fretta e noi dovremmo trattenerla il più possibile sul territorio e fare in modo che arrivi il più tardi possibile al fiume.
Veniamo alla vegetazione. Si sente sempre parlare dell’importanza di pulire gli argini e invece?
Si pensa che la vegetazione sia sporco da ripulire. In realtà, eliminare la vegetazione da questi fiumetti che abbiamo ristretto e canalizzato significa togliere un freno alla velocità dell’acqua. Se l’acqua è ritenuta più a lungo sul territorio, si evitano ingolfamenti e rigurgiti che poi arrivano a tracimare.
La vegetazione, dal punto di vista anche semplicemente idraulico, svolge un ruolo insostituibile sia per consolidare le sponde, sia per rallentare e mitigare l’energia dell’acqua. Tant’è che oggi noi utilizziamo i salici e altre essenze fluviali, i pioppi, ecc., per l’ingegneria naturalistica. Cioè, al posto del cemento, dove dobbiamo consolidare frane e smottamenti, si fanno piantagioni di astoni di salici; un salice rosso, con il suo apparato di radicale molto fine ed esteso, arriva a fare una palla del diametro di circa sei metri e ha una forte resistenza allo strappo, proprietà ottime per consolidare versanti. E invece noi li tagliamo. È una cosa pazzesca!
Da quanto ho capito, la regione Emilia-Romagna si è distinta nell’eliminazione della vegetazione fluviale. Considera poi che questi fiumi canalizzati sono soggetti a un altro fenomeno: se attorno è tutto arato,  quando piove, l’acqua che riesce ad arrivare dentro al canale lo intasa, alzandone il fondo. A quel punto cosa si fa? Si alzano gli argini. Alla fine il fiume diventa pensile, diventa cioè sopraelevato rispetto al piano campagna. Non ci dobbiamo dunque stupire se i fiumi che scorrono in alto anziché nel solco più basso poi combinano questi guai.
Parliamo della rettilineizzazione. Un fiume per andare da A a B in linea retta impiega, ad esempio, dieci chilometri. Bene, se invece gli facciamo fare il suo mestiere, cioè scorrere con anse e meandri, i chilometri diventano il doppio. Nel momento in cui io raddrizzo il tragitto, il serbatoio viene dimezzato e a quel punto quando arriva la piena straripa tutto. La rettilineizzazione è una follia. I fiumi non seguono la geometria di Euclide.
L’altra considerazione è questa: quando non piove l’acqua  viene dalla restituzione delle falde. L’acqua che è andata sotto terra è quella che poi alimenta il fiume d’estate e salvaguarda la ricchezza idrica del territorio anche quando non piove. Nel momento in cui mettiamo pareti di cemento, oppure lo rendiamo pensile e impermeabilizzato con l’argilla, questo interscambio non avviene più e succede che d’estate il fiume va in secca perché non riesce a ricevere l’acqua dal territorio circostante.
Alla fine si tratta di ripristinare i meccanismi naturali.
Il primo ripristino e il più importante di tutti è quello di ridare al fiume la sua sezione, la sua larghezza. Noi gli abbiamo rubato fino all’ultimo metro per l’agricoltura, per le strade, per le infrastrutture e adesso persino per le piste ciclabili. E, attenzione, il fiume non è solo quello che si vede in tempi normali, è anche dove scorre l’acqua quando piove e quindi c’è una morbida spinta, e pure dove scorre l’acqua con la piena. Noi abbiamo pochissimi fiumi oggi in Italia che si trovano in queste condizioni di naturalità, per esempio il Tagliamento. Dopodiché cosa succede? Che davanti a tutto questo, anziché seguire l’indicazione europea con relativi fondi, per “nature based solution”, cioè soluzioni basate sulla natura, si spendono soldi per ulteriori artificializzazioni, per più argini, per più interventi che si sono dimostrati fallimentari a oggi. In realtà bisogna cambiare completamente il paradigma.
Hai avanzato delle perplessità sul ricorso alle casse di espansione o laminazione.
Le casse di espansione, che si fanno necessariamente in prossimità degli alvei, davanti a piogge come quelle che abbiamo visto in questi giorni sono di un’efficacia ridicola perché si riempirebbero in pochissimo tempo e potrebbero ritenere pochissima acqua. Quello che fa arrabbiare è che noi, da una parte, abbiamo tolto spazio al fiume invadendo le sue naturali casse di espansione con fabbriche, capannoni dei supermercati e della logistica, zone industriali, zone edificate, protette da argini; dall’altra, oggi le vogliamo fare artificiali e quando arrivano i progetti non vi dico quanto cemento... Insomma, distruggere un servizio ecosistemico gratuito per farne uno artificiale di dubbia funzionalità è una cosa che fa arrabbiare! Generalmente accanto ai fiumi troviamo terreno con prevalenza di materiale litoide: le casse di espansione artificiali sono in realtà delle cave mascherate.
Parlaci della foresta di Bari.
La città di Bari storicamente si allagava provocando tantissime vittime. Dal 1500 in poi hanno fatto scolmatori, dighe, briglie, di tutto e di più, e si allagava lo stesso. Negli anni Cinquanta hanno fatto un bosco di 1.300 ettari, la foresta Mercadante, a 35 chilometri a monte della città, da dove proveniva l’acqua, e Bari non si è allagata più.
Recentemente, nel 2005, c’è stata un’alluvione che ha fatto danni consistenti in tutto l’intorno, ma la parte protetta dal bosco, la città, non si è allagata. Il Corpo forestale dello Stato, oggi sciolto e aggregato ai Carabinieri, errore epocale, ha realizzato in Italia moltissimi “boschi di protezione”.
Un bosco è un grande trattenitore dell’acqua sul territorio perché col fogliame gli alberi frenano l’energia della pioggia e limitano il potere erosivo dell’acqua. La stessa cosa fa lo strato degli arbusti e delle erbe. Quando poi l’acqua inizia dolcemente a scolare giù, incontra i muschi, che sono spugne straordinarie. Un etto di sfagno, il più comune muschio, trattiene 2,5 litri di acqua. Immaginate cosa può fare una distesa di muschi! Tant’è che i popoli indigeni, per esempio americani, bevevano nel muschio. Quest’acqua viene assorbita anche dalla lettiera di foglie cadute che si rigonfia. Sotto la lettiera c’è l’humus che, grazie alla sua natura colloidale, trattiene tantissima acqua. Sotto ancora ci sono le ife fungine e c’è un suolo che, non calpestato, non capannonizzato, non compattato, riesce a ritenere moltissima acqua. Tutto questo crea nel sottosuolo un bacino di rifornimento per le falde idriche che alimentano i pozzi e i fiumi.
Questa è la mitigazione. La natura lavora per rallentare il ciclo dell’acqua che scorre sulla terra, non per velocizzarla come facciamo noi con le opere rigide, con le opere idrauliche. Dobbiamo rallentare. L’acqua deve arrivare al fiume il più tardi possibile per non mandarli in piena devastante. Con le casse di espansione ancora una volta si agisce a valle, sul sintomo, mentre bisogna agire all’origine, sulle cause. Ci sono aree che possono essere tranquillamente acquistate, espropriate e fatte diventare dei parchi urbani, dei boschi assorbitori di acqua, come è successo nel Barese, a Cassano per il Mercadante.
Tra l’altro, quella foresta oggi è una perla di visite turistiche, di percorsi salutistici, un’attrattiva straordinaria, il fiore all’occhiello della zona.
Da una pianura completamente arata e così ridotta non possiamo aspettarci granché, tanto più che questa è una trasformazione che parte da molto lontano, quando l’energia dell’acqua era utilizzata per far girare le ruote dei mulini e delle gualchiere e i fiumi utilizzati per i trasporti. Bologna era una città d’acqua che aveva più di mille mulini. C’era solo l’Aposa, come torrente. Dopodiché i Reno, il Setta, il Savena sono arrivati a Bologna con sistemi artificiali, ma anche questi sistemi artificiali oggi possono essere trattati in altro modo.
I fiumi svolgono anche un importante ruolo ecologico.
Finora non ho parlato di ecologia. I corsi d’acqua sono dei depuratori naturali, sono i reni del territorio: purificano le scorie circolanti biodegradabili.
Fino a poco tempo fa si pensava che l’inquinamento diffuso, ad esempio sui campi agricoli, con i pesticidi, eccetera, non fosse riafferrabile in alcun modo. Ebbene, oggi sappiamo che una buona dotazione di vegetazione ripariale, anche grazie alla sua lettiera, costituisce un filtro straordinario tra l’ecosistema terrestre e l’ecosistema acquatico: da una parte, intrappola tutta la sostanza più fine, pelitica del terreno (che fa sì che i nostri fiumi a ogni pioggia si riempiano di fango, intasando le foci, alzando i letti e così via); dall’altra riesce a imprigionare moltissimi inquinanti presenti sul territorio.
Il pabulum microbico accelera la biodegradazione delle molecole organiche, che possono essere scomposte e innocuizzate. Nel caso di metalli pesanti e altre sostanze non biodegradabili, c’è il sequestro a livello delle radici, o dentro la stessa pianta, in maniera che si abbia una depurazione protettiva delle acque. La stessa cosa fanno le ife fungine, che sono probabilmente la componente più importante del suolo fertile. Insomma, togliere questa vegetazione ripariale provoca un danno incalcolabile, non soltanto dal punto di vista idraulico-idrologico, ma anche da quello ecologico, perché togliamo al fiume la sua barriera di difesa naturale dall’inquinamento.
Infine dobbiamo ricordare che la fascia fluviale del passaggio fiume-terra (in ecologia i passaggi da un ecosistema a un altro si chiamano ecotoni) è la nostra Amazzonia. Lì c’è il 60% degli uccelli italiani, che la utilizzano come area di sosta, di rifugio, di riproduzione o di vita, e la totalità degli anfibi, molte specie di rettili. I fiumi sono corridoi ecologici naturali; se metti delle fototrappole lungo un corso d’acqua, scoprirai che, soprattutto di notte, passa di tutto, perché gli animali utilizzano le aste fluviali come corridoi di transito. Del resto lo facciamo anche noi: quasi tutte le strade a scorrimento veloce sono parallele al corso dei fiumi. Il fiume è un corridoio ecologico dentro l’acqua, perché i pesci hanno bisogno di muoversi per le proprie esigenze vitali, ad esempio per raggiungere le sorgenti per riprodursi, o per spostarsi se l’acqua si riscalda troppo e si respira male perché col caldo c’è meno ossigeno disciolto. È un corridoio ecologico dentro l’acqua, sulle sponde, e lo è anche dall’alto, dal cielo, perché le rondini, le anatre e tutti gli uccelli che migrano memorizzano il pattern dei fiumi che poi ritrovano rientrando dall’Africa con i loro viaggi incredibili.
Infine c’è un’altra cosa importantissima da dire: le piante sono naturali condizionatori d’aria. La traspirazione delle piante abbassa la temperatura dell’ambiente attraverso la traspirazione che assorbe energia dall’intorno e la imprigiona nel vapore acqueo sotto forma di calore latente di vaporizzazione, trasferendola verso l’alto, negli strati più freddi dell’atmosfera. Ebbene, la vegetazione fluviale è la più potente da questo punto di vista perché è altamente traspirante in quanto l’unica che può vivere con le radici perennemente immerse nell’acqua. Tutte le altre morirebbero, andrebbero in marcescenza. Questa vegetazione è stata selezionata dalla violenza del fiume e si è evoluta per resistere alla corrente, con un’elasticità straordinaria, al punto che con i salici ci facciamo i cesti e persino i nodi; queste piante hanno una straordinaria resistenza alla trazione, per cui, quando arriva una piena, i rami si piegano e frenano la corrente ma non si spezzano. E poi hanno un apparato radicale imponente, tanto che i fusti non vengono strappati dalla piena e, infine, hanno una rapidità di crescita assai spiccata per cui i semi germogliano rapidamente e in un paio di mesi sono ancorati a terra con una radice di una trentina di centimetri.
Ecco, il fiume con la sua violenza ha condizionato e selezionato quel tipo di vegetazione, salici e pioppi, ma anche quella erbacea, pensiamo alla tifa, che è la mazzasorda, oppure ai carici, e questa vegetazione a sua volta ha condizionato il fiume, i suoi ecosistemi e il paesaggio. Se non ci fosse questa vegetazione, i nostri fiumi sarebbero come i canyon di Marte, praticamente privi di vita. Lo straordinario paesaggio fluviale che abbiamo oggi è frutto di questa sorta di selezione biunivoca. Le foglie che cadono da questa vegetazione nell’acqua -pensate all’autunno- sono fonte di cibo per le reti alimentari della vita acquatica e incrementano il potere autodepurativo dei fiumi.
Per tutte queste ragioni non mi stanco di ripetere che togliere la vegetazione, che tra l’altro influisce anche sul clima locale, sulle brezze, è una follia. I fiumi vanno ripuliti esclusivamente dai rifiuti veri, dai tronchi secchi e ramaglie che potrebbero ostruire un ponte. Il resto non è sporco.
La natura non produce sporco. Noi abbiamo bisogno di rinaturalizzazione. Abbiamo bisogno di ridare spazio ai fiumi, di restituire loro la vegetazione e le dinamiche naturali di interscambio dell’acqua con le falde. Questa è la soluzione. Non ulteriori argini, non ulteriori artificializzazioni. L’acqua deve infiltrarsi sotto terra ovunque possibile. Piuttosto che una nuova diga, facciamo un bosco.
L’Appennino è altrettanto martoriato per via delle frane. Lì in realtà molte zone sono state invece abbandonate dall’uomo.
Allora, è evidente che dove c’è stato un abbandono dell’uomo, degli interventi di manutenzione idraulica piccoli e diffusi si rendono necessari. Ma dove la vegetazione di neoformazione riesce ad affermarsi è dimostrato che già stabilizza i suoli dalle frane. Quindi in un periodo di transizione servono innanzitutto piccoli interventi di governo degli scoli dell’acqua, a partire da quelli stradali, perché la stragrande maggioranza delle frane originano da lì.
I boschi oggi sono tutti sotto attacco e il paravento ideologico di quest’attacco è che hanno bisogno di “gestione attiva dell’uomo”. Io faccio presente che dove i boschi si trovano allo stato naturale evoluto funzionano alla grande. Ma abbiamo esempi di boschi di protezione costruiti proprio contro le frane. Ti faccio un altro esempio. Nella piana di Sulmona, in Abruzzo, sotto la montagna del Morrone (che è la montagna di Celestino V, dove c’è il Tempio di Ercole Curino e dove ci fu il giuramento delle popolazioni italiche contro l’imperialismo di Roma, quindi un luogo di storia e di sacralità), le inondazioni e le frane sono state bloccate grazie al programma di riforestazione che fece Fanfani. È evidente che quando faccio una riforestazione devo anche curare l’assetto dell’acqua e quindi una gestione ci vuole, ma ai fini del ripristino della natura. Invece questa formula della “gestione attiva” è sempre agitata ai fini dello sfruttamento del bosco, quasi fosse solo un serbatoio di legna da ardere, senza considerarne gli aspetti idrogeologici, idrologici, di biodiversità e tutte le altre funzioni che un bosco svolge nel ritenere l’acqua, nell’accumularla e nel rendere più dolce il suo ciclo.
Il tuo impegno a difesa dei fiumi risale a tanti anni fa.
Ho passato cinque anni della mia vita, praticamente a tempo pieno, a cercare di bloccare le cementificazioni dei fiumi che negli anni Ottanta stavano interessando tutta la penisola, dal fiume Ledra, in provincia di Udine, fino alla Sicilia, per il Gela e il Dittaino, passando per il Marecchia, dove con le nostre denunce il provveditore finì con guai giudiziari seri. Riuscimmo alla fine a bloccare questa empietà che stava distruggendo tutti i nostri corsi d’acqua con appalti miliardari. Ho anche tenuto centinaia di seminari e lezioni rivolte al pubblico su questi temi, anche nell’ambito del circuito dell’Università Verde, con proiezioni di immagini della vita fluviale per niente conosciuta e spiegando come vivono le varie specie, come si riproducono, di cosa hanno bisogno, di quante specie di adulti terrestri alati vengono per riprodursi come le effimere, le libellule, i plecotteri, i tricotteri e la gente più conosceva il fiume e più lo difendeva.
Quello del fiume Sangro è stato un esempio clamoroso di cementificazione che la prima piena ha distrutto: il fiume è uscito dall’alveo andando a inondare l’intorno per molti chilometri. Grazie all’azione di un gruppo ecologista locale, la popolazione che aveva assistito ai seminari sulla vita acquatica andò a mettersi davanti alle ruspe per impedire la continuazione dei lavori.  Perché l’assalto ai fiumi è durato così tanto tempo? Perché ci occupavamo “solo” di ambiente, dell’ecologia dei fiumi e quindi nessuno al potere ci si filava. Sapete quand’è finita la storia? Quando abbiamo esteso la nostra attenzione all’inchiesta sulle ditte che stavano lavorando in questi contesti e uscì odore di mafia e di malaffare.
Adesso che le cementificazioni e le canalizzazioni stanno riprendendo, approfittando della crisi climatica, stanno succedendo cose incredibili. La più incredibile è l’idea di riaprire le escavazioni del letto dei fiumi che sono bloccate dagli anni Settanta per la loro devastante azione distruttiva del territorio.
Lo sviluppo edilizio e urbanistico nel dopoguerra di tante città, soprattutto costiere, come Cesenatico, Riccione, oppure, scendendo, Pesaro, Senigallia, Fano, Montesilvano, Roseto degli Abruzzi, Pescara, eccetera, è stato fatto con materiali sottratti ai fiumi: ghiaia, sabbia, ciottoli. I fiumi sono stati ridotti a canali sempre più stretti che hanno inciso un solco. Stiamo parlando quindi di una infinità di materiali sottratti ai fiumi, cosa che ha prodotto anche l’erosione della costa e delle spiagge.
All’epoca queste operazioni sono state fermate per due motivi. Il primo è perché producono un effetto di erosione progressiva, cioè il fiume scavato produce un impatto, a valle, sottocorrente, ma anche regressiva, perché ha un impatto ove l’erosione abbassa il profilo del letto del fiume... e si scoprono i sostegni dei pilastri dei ponti!
Noi abbiamo l’esempio in Abruzzo del fiume Vomano dove, in seguito all’abbassamento dell’alveo dovuto alle escavazioni degli anni Settanta, nel 2000, molti anni dopo (i tempi dei fiumi sono diversi dai nostri), a causa dell’erosione regressiva il tappeto di fondo di ciottoli e ghiaia si è consumato e il fiume ha preso a scorrere sull’argilla. L’argilla però si scioglie e in un mese si è prodotto un canyon sprofondato di 14 metri, con pareti verticali. Tutta l’argilla disciolta ha “argillizzato” l’ampio tratto di mare prospiciente la foce e oggi non si trova più un mollusco lamellibranco. A causa dell’intasamento delle branchie non ci sono più vongole, cannollicchi, conchiglie di nessun genere, stelle marine... Il secondo motivo per cui hanno interrotto, fin dagli anni Settanta, le escavazioni dei fiumi è la necessità di porre freno all’erosione delle spiagge mentre cresceva esponenzialmente il turismo balneare e la sabbia acquisiva un valore economico mai visto prima.
Adesso cosa succede? In Abruzzo hanno varato una legge regionale e altrove ci stanno lavorando, affinché si possa tornare a scavare e approfondire i fiumi con il pretesto della crisi climatica e dell’adattamento a essa. La logica perversa è questa: siccome non abbiamo i soldi per approfondire gli alvei (che in questa regione non sono pensili), diamo dei lotti d’intervento ai cavatori;  loro scavano e si “ripagano” con la vendita del materiale sottratto al fiume, e  noi dovremmo pure ringraziarli come se ci avessero fatto un favore.
Mentre in passato questi prelievi dannosi venivano compiuti in cambio di un canone di concessione, adesso regaliamo tratti di fiume ai privati riaprendo le escavazioni. In nome della crisi climatica! Queste sono le cose che fanno paura, perché poi la logica che ho appena richiamato è semplice e suadente per la gente. Quando tu dici “pulire” i fiumi, “approfondirli”, fare delle vasche di laminazione, la gente ti segue, senza sapere che così invece provochi disastri. Certo in determinate circostanze quando c’è sovralluvionamento occorre intervenire sull’alveo, ma ci sono modi per farlo senza compromettere l’ecologia dell’ambiente fluviale: gli inglesi da anni hanno adottato in merito linee-guida.
Ancora una volta, bisogna cambiare il paradigma: non agire a valle, sui sintomi, sugli effetti, bensì a monte sulle cause. Le cause delle alluvioni vanno ricercate sul territorio appenninico, sul territorio attorno al fiume, sul suo bacino idrografico; è lì che bisogna operare con interventi diffusi, intelligenti e soprattutto multidisciplinari, perché altrimenti un ingegnere idraulico mi tratta il fiume come se fosse una condotta d’acqua e non come un ecosistema che ha ben altre regole. Ci vogliono anche botanici, biologi, geologi, persino medici e storici del paesaggio, tutte le competenze necessarie e grande partecipazione del pubblico. Il governo francese sta facendo una serie di animazioni bellissime per informare il pubblico esattamente sulle cose di cui sto parlando. Noi dobbiamo seguire questa strada.
Altro che pulizie degli argini e vasche di laminazione che, oltre a essere di dubbia utilità, aumentano l’erosione della costa perché diventano dei depositi di limo e sabbia che bisogna ripulire continuamente. L’acqua va intercettata molto prima. Quindi lasciamo le vasche di espansione naturale e se abbiamo il coraggio, dove le abbiamo invase, liberiamole, anche con soldi pubblici, perché alcune operazioni possono essere state fatte in buona fede all’epoca.
Qui dove vivo la maggiore vasca di espansione, quella che proteggeva la città di Pescara, oggi ospita un centro commerciale tra i più grandi d’Europa, si chiama Megalò. Che cosa hanno fatto? Sapendo che andavano a edificare in un’area normalmente allagata dalle piene, contrassegnata nel Piano Stralcio di Difesa dalle Alluvioni come zona di assoluta inedificabilità,  in parte l’hanno un po’ rialzata e soprattutto hanno recintato il fiume realizzando un argine alto dodici metri che lo ha trasformato in una pista da bowling ove oggi la velocità dell’acqua mette in crisi le popolazioni a valle.
Assieme a comitati di cittadini ci siamo opposti in tutti i modi, ma abbiamo perso.
(a cura di Barbara Bertoncin)