Chi, dopo sessant’anni, rilegga le pagine introduttive a Minima Moralia di Adorno, scritte da un poco più che ventenne Renato Solmi e riedite recentemente da Quodlibet, non può che rimanere colpito e ammirato, come già ebbe a sottolineare Fortini, dalla lucida intelligenza e dal rigore etico che le pervadono. Colpisce, altresì, il coraggio di Solmi di introdurre le analisi dei francofortesi dedicate al "supercapitalismo americano”, nell’angusto ambiente culturale italiano, stretto tra il "vaniloquio accademico” e il dogmatismo stalinista di cui il Pci si faceva zelante e pedissequo portavoce. Tradurre Adorno e, successivamente, Benjamin, in una situazione segnata dall’arretramento se non dalla dismissione di ogni istanza critica, rappresentava, pertanto, un gesto rivoluzionario, poiché portava alla luce l’inconsistenza del sapere dominante e, insieme, la sua complicità con l’omologazione prodotta e promossa dall’industria culturale. Rigore e intelligenza, del resto, in Solmi non sono mai venuti meno, come la sua esistenza ampiamente testimonia. Il suo percorso di vita e di ricerca ha preso forma, da sempre, senza cedimenti, entro questo intreccio indissolubile. Infatti, solo un’intelligenza sorretta da un’intransigenza per nulla incline a compromessi, può opporsi alla feroce spietatezza dei nostri tempi. Nessuna accondiscendenza, dunque, al presente, poiché anche il più piccolo e apparentemente insignificante cedimento si tradurrebbe nella giustificazione del presente stesso e, quindi, nella inevitabile adesione ai principi dominanti. Nella scelta di non distogliere lo sguardo dal negativo, come direbbe Hegel, e dalla vita brutalizzata e offesa, Solmi si è, pertanto, rivelato allievo fedele di Adorno, che mai, nei suoi scritti, come ricorda Mann, ha tradito la sua "tragica intransigenza”.
La "libera esposizione” delle argomentazioni adorniane svolta nell’introduzione, salda fedelmente l’esercizio rigoroso del pensiero, la bellezza dello stile e la finezza ermeneutica, che non teme di evidenziare i punti critici della riflessione di Adorno: ad esempio, il rapporto complesso e in parte irrisolto tra teoria critica e marxismo, o, più propriamente, tra teoria critica e comunismo. Fuori da ogni soggezione, l’introduzione di Solmi si costituisce come testo autonomo, una sorta di controcanto al saggio adorniano, rispetto al quale è qualcosa di più di un semplice commento. Piuttosto, in alcuni passaggi, sembra, chiarendolo, completarlo. Ciò accade, ad esempio, nel richiamo costante a Hegel, non più, però, interpretato come il filosofo del sistema che costringe la realtà, mortificandola, nel concetto, bensì lo Hegel della Fenomenologia, il pensatore che più di altri ha posto al centro della sua riflessione la drammaticità del divenire soggetto, ovvero, come nota Solmi, "l’origine storica del sé”. Il soggetto hegeliano, allora, è sempre segnato da uno scarto, da una provvisoria non coincidenza con sé che gli impedisce di ipostatizzarsi in un’essenza definita e definitiva. Quello scarto, però, lungi dal rappresentare un vuoto, allude, come si vedrà, a una redenzione possibile, nonostante il pessimismo "storicamente condizionato” di Adorno, pur sempre, però, pronto ad aprirsi alla speranza. Nulla, tuttavia, garantisce l’inevitabilità di questo passaggio. Il progresso infinito, infatti, può rovesciarsi nel regresso altrettanto infinito. Nessuna necessità, quindi, percorre la storia, dove la promessa illustrativa di felicità può, come scrive Solmi, rovesciarsi nel terrore. Eppure, questa ambivalenza caratterizza la cultura, sospesa tra l’apologia dell’esistente e la sua critica radicale, tra il desiderio di emancipazione e una rassegnata e falsa conciliazione con il presente. "Sostanza utopica” e complicità con le barbarie convivono, così, nella cultura. Infatti, se è vero che essa porta in sé "germi di rivolta e di speranza”, tuttavia quando li esprime rischia di tradirli. Ciò fa dire ad Adorno, allora, che "parlare di cultura è sempre stato contro la cultura”, soprattutto quando questa, con la sua pretesa di compimento, aderisce senza attrito al reale, giustificandolo.
In particolare, Adorno rivolge la propria critica al neo-positivismo e all’industria culturale. Entrambi i fenomeni concorrono alla naturalizzazione dell’esistente che, così, diviene l’orizzonte unico entro cui si iscrivono le vite degli uomini. Per il neo-positivismo, che incarna ciò che Hegel chiamava "intelletto protocollare”, "tutto ciò che non si lascia ricondurre direttamente o indirettamente a un protocollo elementare”, appare insensato. Come Solmi sottolinea, viene abolita la distanza tra la realtà e il pensiero, per cui quest’ultimo "ha senso solo quando corrisponde puntualmente a un oggetto (cosa, fatto, rapporto) e si risolve interamente in esso”. Il pensiero, pertanto, viene piegato a un "realismo gretto e meschino”. Il neo-positivismo, quindi, si manifesta come "apologetica immediata”, che si vieta "ogni estrapolazione, ogni trascendimento”, ogni rovesciamento dialettico.
L’industria culturale, d’altra parte, promuove "standard collettivi di comportamento”, che contribuiscono al disfacimento dell’individuo e alla dissoluzione dei rapporti umani che, spogliati dalla dimensione dell’intimità, si sono ridotti a essere "epifenomeni” e appendici dei rapporti di produzione. Da qui il declino dell’amicizia e lo svuotamento degli individui, scissi ormai perfino da loro stessi. Scomparso il "tessuto tradizionale di mediazione tra società e individui”, essi divengono monadi isolate davanti agli schermi, loro servili e docili "clienti”. Il cinema, in particolare, abolendo lo scarto critico tra la realtà e la sua rappresentazione, consacra la "totalità del sussistente”, poiché, riproducendolo, ne conferma la pretesa alla esaustività, a disegnare cioè un orizzonte di senso definitivamente compiuto, poiché non ammette alternative. Il cinema, secondo Adorno, instilla il "piacere della rinuncia” e, insieme, induce una "assoluta rassegnazione”, per cui ricorda reiteratamente allo spettatore la sua impotenza, ossia la sua impossibilità di vivere la vita del protagonista del film. Sono negati, così, "la possibilità dell’indugio, l’intervento benefico della riflessione”, cosicché sembra non potersi sottrarre a questo destino neppure la "cinematografia progressiva”, che per raggiungere il proprio scopo è costretta, senza alcuna garanzia di successo, "a violare tutte le leggi della tecnica e l’habitus psicologico degli spettatori”. Tuttavia, sottolinea Solmi, "la tendenza alla conciliazione -come ripetizione e conferma immediata- è troppo forte perché la denuncia, sotto la pressione del materiale, non si capovolga immediatamente nel suo contrario”. Il cinema, come tutti i prodotti della tecnica, quindi, non è neutrale, non può risolversi indifferentemente nel bene o nel male. Infatti, "lo strumento è carico di potenzialità negative o positive, in diretto rapporto con la funzione per cui è nato”.
Nell’acquiescenza complice, nel rassegnato spegnimento di ogni istanza critica, si consuma il passaggio dalla società borghese a quella totalitaria, che sarà, successivamente, descritta da Anders come "totalitarismo morbido”. Il capitalismo, dunque, è approdato al dominio reale: "l’economia si libera dal suo isolamento, pretende di fare a meno di ogni mediazione, e assume direttamente l’esercizio delle tecniche ideologiche del dominio”. Il capitalismo, quindi, produce soggetti a sé conformi, piegati al profitto e passivi consumatori degli stili di vita confezionati e imposti dall’industria culturale.
Le "proporzioni inaudite” raggiunte dalla "concentrazione del potere economico” rendono superflua la "dittatura politica”. Il meccanismo, infatti, si riproduce spontaneamente e senza sforzo e perfino ciò che ne rappresenta l’antitesi è incluso in esso "e adoperato per la lubrificazione dei suoi congegni”. Viene così espunto anche il più flebile tentativo che possa, con l’imprevedibilità del suo agire, minacciare il progetto di edificare, come scrive Anders, "un mondo privo di intoppi e talmente automatico che può concedersi il lusso di fare a meno di una voce che comanda o delle mani di un dittatore che governa con il terrore”.
Nulla, dunque, sfugge al "progetto di inquadramento e sottomissione”. Anche gli intellettuali si inchinano di fronte alla "strapotenza di ciò che è”, animati dalla "volontà spasmodica di essere all’altezza degli eventi”: tentativo vano, poiché si risolve in "inferiorità, ritardo, smarrimento totale”. Prigionieri della "tautologia organizzata”, uno dopo l’altro si sottomettono "alle lusinghe dell’industria culturale, che li trasforma in funzionari stipendiati”, abituandoli così a "ragionare in termini di produzione di mercato” e a guardare "con meraviglia e disprezzo agli attardati che si ostinano a compiere il proprio lavoro come economicamente nullo e improduttivo”. Così, essi non possono che promuovere una visione consolatoria ed edificante quando, addirittura, non partecipino attivamente alla disumanizzazione delle vite, complici e agenti dello stato di cose esistente.
Nelle pagine finali della sua introduzione, Solmi pone la questione di cosa intenda Adorno per "salvezza”. Come si è detto, il pessimismo adorniano è un pessimismo "storicamente condizionato”, alieno, cioè, da ogni "ipostatizzazione” e aperto alla speranza. Non c’è salvezza fuori o in disparte dalla storia, così come la redenzione possibile non risiede nell’idealizzazione del passato, tempo di una presunta compiutezza. Piuttosto, "quello che dobbiamo cercare è, forse, proprio ciò che, sul momento, non ci serve, che ci mette in difficoltà”. Pertanto, la salvezza è tale laddove essa appare, paradossalmente, più lontana e minacciata: nella dissonanza, negli equilibri incerti, nei tentativi più volte ripetuti e più volte falliti, nell’irrisolto che accompagna ogni esistenza. Si tratta, scrive Adorno, di rispondere all’"appello” e alla "promessa” che ogni opera porta fecondamente con sé, dove la sua incompiutezza, lungi dal rappresentarne un limite, è la traccia dell’ostinata ricerca di un’armonia mai pienamente realizzata, eppure tenacemente inseguita. Pertanto, il valore delle opere d’arte non risiede "nella problematica unità di forma e contenuto, interno ed esterno, individuo e società”, ma, semmai, si palesa "nei tratti in cui affiora la discrepanza, nel necessario fallimento dell’appassionata tensione verso l’identità”.
La nozione di stile incarna questa ambiguità: se, infatti, rappresenta l’intransigenza necessaria "contro l’espressione caotica della sofferenza”, il momento indispensabile del controllo di sé”, dall’altro esso costituisce "una mediazione necessaria”.
Così avviene che "lo stile riflette -in tutte le sue forme- la struttura di volta in volta data della violenza, del dominio di classe, e, in quanto riproduce l’equilibrio sociale, manca alla promessa della vera conciliazione”. Però, scriverà Adorno nella Teoria estetica, che "riuscite sono quelle opere d’arte che, dall’amorfo, cui esse fanno inevitabilmente violenza, salvano qualcosa trasportandolo nella forma”.
Nel corpo a corpo con il linguaggio, nel suo tentativo estremo di nominare, seppur precariamente, l’illimitatezza del dolore, la crepa inferta al reale si rivela, allora, una possibilità di salvezza, sempre in pericolo, però, di rovesciarsi nel fallimento.
Rimane da chiedersi che cosa sarebbe accaduto se i giovani protagonisti del conflitto sociale degli anni 60 e 70 avessero letto con più attenzione i francofortesi. Probabilmente si sarebbero risparmiati tanta astrattezza ideologica, ma, soprattutto, avrebbero guadagnato in termini di perspicuità e di radicalità critica. Avrebbero, cioè, compreso quale immane trasformazione stava mettendo in atto il capitalismo, capace, ormai, di governare direttamente le vite asservite alla spietata logica del profitto. Ancora, avrebbero compreso che andavano perfezionandosi sfruttamento economico e dominio politico, condannando le singole esistenze all’irrilevanza: vite pronte a essere sacrificate. Solmi, dunque, ha avuto il merito di aprire la strada alla critica radicale della barbarie capitalistica. Basti ripercorrere i nomi degli autori da lui tradotti o promossi per comprendere la forza e la lungimiranza del suo tentativo: Adorno, Lukács, Benjamin, Brecht, Anders, de Martino, per citarne solo alcuni.
Questa, dunque, è la grande eredità che ci ha lasciato.