Benpensante, ma molto liberale, nel suo libro Notes Toward a Definition of Culture (1948), T.S. Eliot non nasconde che, personalmente, egli si attiene alle verità rivelate del dogma anglo-cattolico. Egli riconosce tuttavia a tutte le religioni stabilite il privilegio di "incarnarsi" in una cultura. Non arriva fino a dire, come Louis Blanc a Herzen: "Allora, la vostra religione è l'ateismo?" giacché, pur ritenendo salutare un certo scetticismo, Eliot proscrive il "pirronismo", in quanto, se è umano passare attraverso il dubbio, sarebbe diabolico installarvisi.
Certo, una volta attribuita un'elasticità praticamente senza limiti sia alla nozione di "religione" (dominio del sacro, dogmi, riti attivi, devozioni, estasi iniziatiche) che a quella di "cultura", si arriva facilmente (secondo l'assioma tout est dans tout) a farle coincidere. In tal modo, il problema di una religione che ha estirpato a gloria di Dio tutto un ambiente di "cultura intellettuale" (come nel caso degli Albigesi e del Perù, che a rigore è quello di una religione che abbatte una religione rivale; o anche in quello della persecuzione dei "costumi pagani" da parte di Calvino, o della Controriforma, o dei musulmani rigoristi), può essere evitato senza inciampo, e così pure quello degli aspetti irreligiosi di talune società assai colte. Onde poi non sarà neppure difficile condannare come scandalosamente fanatica la parola " écrasez l'Infâme", nemica evidentemente della cultura, poiché nemica della religione.
Detto questo, il libretto di T.S. Eliot è ricco di osservazioni assai acute. Per esempio, la seguente: "Gli uomini che s'incontrano solo per scopi seri e ben definiti, in occasioni ufficiali, non s'incontrano veramente... Uscendo da tali incontri, essi si ritireranno ciascuno nel proprio mondo sociale privato e in quello della propria solitudine... L'affiatamento di un circolo di amici dipende da una convenzione sociale comune, da un comune rituale, e da un comune piacere di ricreazione. È una sfortuna, per un individuo, quando il gruppo dei suoi amici e quello dei suoi soci d'affari sono due gruppi separati senza rapporto l'uno con l'altro; ma è d'altro canto fattore d'angustia che siano un unico e medesimo gruppo."
Osservazioni come questa invitano a riprendere il filo delle idee correnti nel XVIII secolo sulla politesse come linfa vitale della socievolezza, e quindi di ogni cultura; o magari a risalire fino al concetto di philía che Aristotele considerava fermento attivo di ogni comunità ben regolata. Ciò tanto più che, in un altro punto, Eliot dice senza ambagi che "la cultura si può anche definire semplicemente come ciò che fa la vita degna di esser vissuta", insistendo sul fatto che "in una società sana l'artista, il poeta, il filosofo, il politico e il contadino avranno una cultura in comune... cioè vivranno insieme e parleranno la medesima lingua."
Ma per la gente seria che noi siamo, "l'affiatamento di un circolo di amici" e la politesse sono senza dubbio inficiati di quella frivolezza di cui non si è mai cessato di accusare il secolo di Voltaire e di Marivaux e (un po' meno) quello di Prassitele e di Menandro; e non menziono Platone perché il suo spirito irrequieto e ironico è stato sottoposto a ripetuti bagni sterilizzanti di teologismi e di quasi-bigotteria da parte di una serqua di purificatori; tuttavia, neppure la "leggerezza" (o ambiguità) di Platone è sfuggita ai severi rimbrotti di hegeliani e esistenzialisti. "Circoli di amici" e politesse sembreranno dunque a noi gente seria basi del tutto insufficienti per erigervi sopra l'edificio imponente della cultura.
Il sentimento quasi di scandalo che può suscitare un tal modo troppo "profano" di considerare il fatto sociale è rispecchiato in forma amabile nel fatto riferito da un acuto osservatore della società cinese, Gerald F. Winfield: "Non dimenticherò mai lo stupore dei miei studenti quando mi venne fatto di dire che mio padre e io eravamo ottimi amici. Questo sembrò loro quasi inconcepibile, giacché il rapporto fra figlio e padre, con il rispetto e l'obbedienza che si deve da una parte e la superiorità e autorità benevola che si dispensano dall'altra, era ai loro occhi un rapporto assai più elevato che non lo scambio egualitario fra amici. Essi non potevano concepire che uno fosse l'amico del proprio padre per la buona ragione che il rapporto fra amico e amico viene ultimo nella ge-rarchia dei cinque rapporti. "
Non per ragioni di gerarchla spirituale, ma pe ...[continua]

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