«Sistema», all’origine, significa «composto di varie parti», e poi anche «governo organizzato» e «costituzione politica». Ma non è questo che s’intende quando oggi si parla di «sistema sociale», bensì qualcosa di molto vicino a ciò che si vuol dire quando si parla di «sistema planetario», di «sistema di comunicazioni» e di ordine di cose, oggetti, fatti, in generale. Al tempo stesso, però, s’intende anche qualcosa di simile al «sistema filosofico», nel senso stretto di ordine d’idee fondato su un certo numero di postulati e riducibile a un principio unico. Si parla, insomma di sistema sempre nel senso di un tutto ben coordinato nelle sue parti e funzionante secondo leggi e regole fisse, conoscendo le quali si può per un verso dominarlo e servirsene, per l’altro scomporlo e distruggerlo per sostituirgliene un altro ritenuto migliore.
Sarà allora lecito, lasciando da parte la questione del capitalismo o del socialismo, della democrazia o dell’autoritarismo, porsi una domanda preliminare: se, in qual misura e in che senso si possa parlare di «sistema» a proposito di quel fatto eminentemente complesso e molteplice che è la vita associata. Può, insomma, una società esser considerata e trattata come un «sistema», cioè da una parte come un fatto analogo a un ordine d’idee chiuso su se stesso (sistema di filosofia, di logica, o di leggi matematiche), dall’altra come un insieme d’individui, di gruppi, di meccanismi e di fatti materiali; organizzati secondo un criterio unico e dominante?
Sembra di no. Per cominciare, quando si ascoltano i discorsi degli attuali sovversivi, sembra che sia proprio contro una tale idea che essi si ribellano, e che sia la riduzione di ogni aspetto della convivenza umana a un’unica dimensione e misura -quella dell’utile- che essi rimproverano all’attuale «sistema». Sembra anche, per toccare di sfuggita una questione molto complessa, che, nel pensiero di Marx medesimo, il rapporto fra il modo di produzione (il quale in teoria dovrebbe determinare, insieme con la coscienza del singolo individuo, ogni forma della vita collettiva) e le cosiddette «sovrastrutture» e «infrastrutture» politiche, giuridiche, religiose, culturali, rimanga in fondo ambiguo; e, rimanendo esso ambiguo, renda ambigua anche la nozione di «sistema» capitalista.
Ma, per poco che ci si rifletta, e, dall’alto delle costruzioni ideologiche (che esse sì meritano la qualifica di «sovrastrutture») si torni sulla terraferma dell’esperienza individuale e sociale, l’idea che l’insieme della vita associata possa costituire un sistema definibile con qualche rigore appare subito delle più dubbie. Come, per cominciare, è possibile far somigliare a un sistema i fondamenti elementari dei rapporti fra individui? L’amore, l’odio, la gelosia, l’avarizia, la brama di potere, nonché far sistema, sono impulsi che mettono disordine in qualsiasi sistema immaginabile; ridurli a un unico comun denominatore è impossibile. Se poi si parla dei fatti propri della vita associata (quelli che sorpassano l’individuo e lo mantengono in una rete di relazioni di cui egli stesso non ha che parzialmente coscienza), le realtà alquanto impalpabili che sono la religione, la cultura, il costume, l’inerzia (ma, al tempo stesso, l’energia) delle tradizioni, impediscono egualmente che si parli di «sistema».
«I fatti sociali non sono cose», ha detto un sociologo francese, Jules Monnerot27. Si può aggiungere che una società non è un insieme di parti: gl’individui non sono «parti» della società altro che in senso metaforico; il rapporto fra due individui non è una parte della struttura sociale, ma, se mai, suo principio costitutivo e s ...[continua]
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