Si parla di crisi, e si rischia di compiacersi dell’idea che, siccome siamo in crisi, non abbiamo che da restarci fino a soluzione avvenuta. Mentre addirittura nell’origine della parola, se molto lontano (nella radice indo-europea) c’è l’idea di «taglio» e di «ferita», c’è anche poi quella di «divisione» che, nella forma più vicina del vocabolo quale noi l’usiamo, diventa «passare al vaglio», «discernere» e, finalmente, «giudicare» e «decidere».
Naturalmente, se si tratta di speculare attorno a una nuova religione, o di stabilire i piani di una società perfettamente funzionante, son faccende da lasciare a quelle bizzarre congreghe di specialisti che in America si chiamano Think Tanks, «serbatoi di pensamenti». Ma ciò di cui si tratta in verità è guardarsi attorno, riflettere a ciò che accade attorno a noi e ai discorsi che attorno a noi si sentono fare, e dir la propria senza rispetti umani.
Ora, nei discorsi che attorno a noi si sentono fare, e addirittura nel linguaggio quotidiano, c’è un fatto che colpisce molto più del famoso e falso divario fra progresso materiale e progresso «spirituale», e molto più ancora della falsissima separazione fra le cosiddette «due culture», la scientifica e l’umanistica. Questo fatto è che noi -tutti noi, dall’in­tellettuale sofisticato al comune lettore di giornali e rotocalchi- continuiamo a parlare il linguaggio del progresso, mentre al progresso non crediamo più. E non ci crediamo per la buona ragione che non c’è: quello che c’è sono i successi sensazionali della tecnica scientifica, biologica, o fisica che sia, le imprese sensazionali della cosmonautica o della chirurgia. Ma il progresso quale fu concepito già da Descartes, e con fiducia crescente nei secoli successivi fino agli inizi del nostro (e, per essere precisi, fino al 1914) non è più credibile per la semplice ragione che non ha più luogo.
Non ha più luogo perché, concepito seriamente, all’origine esso comportava che progresso scientifico e progresso intellettuale e morale procedessero paralleli e, crescendo la fiducia nell’uno, crescesse anche la certezza dell’altro. Anzi, per essere precisi, il progresso scientifico e materiale veniva concepito come lo strumento di quello morale e intellettuale dell’umanità, o almeno di quella occidentale. Ma, attraverso l’umanità occidentale, era inteso che l’umanità intera sarebbe stata sollevata dalla sua millenaria miseria e infelicità.
In luogo di che, a dirla semplicemente, noi siamo di fatto, e da un pezzo, diventati pessimisti quanto a ciò che potrà portarci il domani; se non pessimisti, ansiosi; e, se non ansiosi, indifferenti; certo non entusiasti. L’entusiasmo, se c’è, è verbale e artificioso: cerchiamo, per esempio, di persuaderci che andare nella Luna sia una gran vittoria umana, mentre è chiaro che non farà avanzare di un passo la felicità di un solo individuo sulla faccia della terra.
Era appunto della felicità che si trattava, nel secolo diciottesimo e nel diciannovesimo: di alleviare realmente l’infelicità umana. Spandere nel mondo la gioia di un’umanità affratellata è il sogno di cui cantarono Mozart nel Flauto magico e Beethoven nell’ultimo tempo della Nona Sinfonia; per non parlare di Voltaire, di Diderot, di Rousseau, e poi dei pensatori e degli apostoli del socialismo.
«Le plus grand bonheur du plus grand nombre»: questo era l’ideale del progresso. Ed è proprio questo che è venuto a cadere quando s’è non già scoperto, ma sperimentato da masse sempre più numerose di uomini, da nazioni e continenti interi, che «la massima felicità del maggior numero» non poteva non significare in pratica la massima servitù del maggior numero. E questo di necessità. Giacché al fine di assicurare non diciamo la felicità (la quale, a vero dire, nessuno sa che cosa sia, e non è certo che sia un ideale), ma il benessere almeno apparente del maggior numero possibile d’individui, bisogna evidentemente che tutti servano questa causa e si sottomettano alle condizioni necessarie al raggiungimento di questo scopo. Lo scopo riguarda tutti, infatti; e se è il solo e supremo che l’uomo possa concepire, esige la subordinazione di tutti. La società prende il posto di Dio, come Rousseau aveva del resto visto con tutta chiarezza. E il contratto sociale significa che ognuno diventa schiavo di tutti e tutti di ognuno.
Ciò vale evidentemente per qualsiasi tipo di organizzazione sociale che riconosca l’ideale del progresso come ideale supremo. In questo, la differenza fra regim ...[continua]

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