Le "osservazioni sui piccoli gruppi, l’azione periferica, eccetera, non l’avevano minimamente impressionata: era ovvio che Monteverdi credesse in simili movimenti, perché non avrebbe dovuto? Era un anarchico”1. Quasi mezzo secolo fa il Monteverdi di The Oasis, fondatore della piccola comunità utopica di cui il romanzo ricostruisce la vicenda, offrì a Mary McCarthy il destro per illustrare la profonda influenza che nella seconda metà degli anni Quaranta Nicola Chiaromonte aveva esercitato sulla comunità newyorchese di intellettuali radicals che si radunava intorno alle riviste Partisan Review e politics e che comprendeva personaggi del calibro di Hannah Arendt, Dwight Macdonald, Paul Goodman, C. Wright Mills, Daniel Bell, eccetera2. Per un lettore italiano d’oggi è per certi versi stupefacente apprendere della rilevanza politica e intellettuale di un pensatore suo connazionale sconosciuto ai più3. Di fatto, rispetto alla cultura italiana del Novecento, Chiaromonte sembra appartenere a un ristretto gruppo di "intransigenti”, laicamente fieri della propria autonomia rispetto alle vulgate di partito e alfieri di una "terza via” rispetto all’esperienza del socialismo reale da un lato e al capitalismo d’assalto dall’altro: non a caso, un gruppo inviso oggi sia agli intellettuali di destra sostenitori della "via italiana alla politica”, che ne criticano la mancanza di realismo e la propensione a "tirarsi fuori” dalla cultura nazionale, alla ricerca di un’inesistente "Altra Italia”, sia ai tecnocrati di sinistra, che giudicano irrilevanti le sue pregiudiziali etiche e di­sfattistiche le sue prese di posizione critiche. Inoltre, nella valutazione di questo esiguo gruppetto di laici "eretici” Chiaromonte sembra assumere una posizione piuttosto defilata, soprattutto per la sua indisponibilità -anzi, per la sua "refrattarietà”- a trasformarsi in "utile idiota”. Non è oggi difficile identificare i motivi per cui la sinistra di partito italiana, ridotta ormai a una ricerca di progenitori "nobili” quasi ridicola, riproponga con ardore i nomi di Gobetti e dei Rosselli, con i più audaci a ricordare persino Ernesto Rossi, valorizzando soprattutto l’impianto antagonistico del loro pensiero; è altrettanto semplice capire perché Chiaromonte, con la sua sociologia indeterministica e la sua inflessibile critica della politica praticata, della tecnocrazia e della statualità "moderna” mal si adatti a riscoperte dell’ultima ora in chiave di sostegno a una progettualità sinistrorsa burocratizzata, dirigista e grettamente utilitarista.
D’altro canto, la riflessione di Chiaromonte sembra percorrere le principali linee sismiche di crisi della vicenda della sinistra novecentesca. A cominciare dalla sua militanza giovanile in "Giustizia e Libertà”, in cui, scrivendo prima dall’Italia e poi nell’esilio francese (con l’intermezzo spagnolo nella squadriglia aerea di Malraux)4, proponeva un’originale analisi del fenomeno totalitario in chiave di "tirannia moderna”, legandolo soprattutto alla fenomenologia dello Stato nazionale ottocentesco; proseguendo, negli anni Quaranta, con il soggiorno prima negli Stati Uniti e poi nuovamente in Francia, quando per un breve momento sembrò prendere concreta forma l’ipotesi di una "terza via” fondata sul recupero dell’opzione libertaria in campo socialista, operazione che, costruita sull’asse New York-Parigi e sui rapporti tra le intellighenzie delle due capitali passate dalla militanza nel marxismo eretico (leggi: trotskysmo) a un più scettico apprezzamento dei valori centrali della civiltà liberale, vide Chiaromonte tra i più convinti protagonisti5; per finire nell’Italia del dopoguerra, in cui il nostro si schierò apertamente contro il socialismo reale ma proponendo nel contempo un altro Occidente rispetto a quello trionfante del capitalismo fordista e dello sciovinismo culturale (l’"altra Europa” cui accenna Mary McCarthy, attribuendo a Chiaromonte il merito di aver proposto al circolo di politics una nuova genealogia del pensiero politico moderno)6. Negli anni Cinquanta e Sessanta, la fase più matura e creativa del suo percorso (si pensi all’impresa di Tempo presente), affrontò un’"enorme […] profusione” di temi7, dalla letteratura alla filosofia, dalla politica al costume, passando con una certa disinvoltura dalla natura ideologica del marxismo ai presupposti storico-teorici del romanzo classico e post-classico, dalla Francia di De Gaulle alla Grecia dei colonnelli, dallo scontro tra cine ...[continua]

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