Sul tema dei confini in rapporto alla condizione dei migranti: in un tuo articolo su “Aut-Aut”, Cittadini della frontiera e confini della cittadinanza, riprendevi la tesi di uno studioso, che afferma che “pensare l’immigrazione significa pensare lo stato”. Cosa vuol dire, concretamente?
Si tratta della citazione di un sociologo algerino scomparso recentemente, Abdelmalek Sayad, che ha molto influenzato il mio lavoro ed in generale il lavoro del gruppo genovese di ricerca sull’immigrazione di cui faccio parte. Perché pensare lo straniero, il migrante, significa pensare lo stato? Perché attraverso l’immigrazione, attraverso la definizione dei codici di inclusione e di esclusione, lo stato pensa se stesso, propone un’immagine determinata di che cosa significhi appartenenza e dunque di che cosa sia la cittadinanza, una categoria che è stata riscoperta in Italia a partire dalla fine degli anni Ottanta. La cittadinanza non era mai stata una categoria fondamentale del lessico politico italiano; la questione si esauriva nelle fredde disposizioni di legge che regolavano l’accesso. A partire dalla fine degli anni ‘80 si sono moltiplicati i libri, i saggi, i progetti di ricerca, i convegni dedicati alla “cittadinanza”. All’interno di questa riscoperta, il concetto è stato caricato di valenze che vanno ben al di là di quella meramente giuridica, con la funzione di rappresentare un termine mediano tra l’ordinamento oggettivo dello stato, la costituzione e la dimensione soggettiva dell’esperienza politica. Una sorta di specchio che consente di guardare sia alla costituzione, sia al modo in cui i cittadini fanno esperienza soggettivamente della politica: che diritti hanno, che concezione hanno dell’appartenenza politica, che tipo di azione politica effettivamente promuovono ecc. In qualche modo, cittadinanza è termine che è diventato sinonimo di appartenenza, ma appartenenza può significare molte cose diverse, possono esserci diversi modi di pensarla: attraverso l’immigrazione, si è messi a confronto con il gesto originario che fonda la possibilità dell’appartenenza, e questo è un gesto esclusivo, un gesto di separazione tra coloro che appartengono e coloro che non appartengono.
L’immigrazione restituisce a chi ragiona sulla cittadinanza la problematicità dei confini di questo concetto. Questo tema è stato molto poco discusso in Occidente dopo la fine della seconda guerra mondiale; anche in paesi come l’Inghilterra e gli Stati Uniti, dove cittadinanza era un termine centrale all’interno del lessico degli studi politici, si tendeva a metterne in evidenza la dimensione inclusiva, integrativa. Negli ultimi vent’anni sappiamo che il modello di cittadinanza che coincideva con lo sviluppo dello stato sociale, con il potenziamento e lo sviluppo dei diritti sociali è entrato in crisi; dalla fine degli anni Settanta la crisi del welfare state è diventato un tema fondamentale non solo di dibattito teorico ma anche di scontro politico.
Un sintomo della crisi degli stati nazionali...
Esattamente, di cui però si è cominciato a parlare un po’ dopo, ma le due cose hanno trovato in qualche modo un terreno di convergenza in quella che è sembrata una crisi complessiva dello stato. Proprio in questa situazione si è cominciato a riscoprire il fatto che la cittadinanza si fonda su una dimensione esclusiva.
Ci sono cittadini e non cittadini, tanto per cominciare; ma anche nella codificazione dei diritti di cittadinanza ci sono dimensioni esclusive, soggetti che sono cittadini, ma che una serie di sviluppi politici e sociali confina nella condizione di marginalità all’interno della cittadinanza complessivamente considerata. Quindi c’è tutto un insieme di questioni da considerare quando si ragiona sulla cittadinanza. In particolare, oggi non siamo più in una situazione come quella degli anni Cinquanta, che vide i grandi movimenti migratori nell’Europa occidentale.
In quel periodo nei paesi anglosassoni ma anche in Francia, in Belgio, soprattutto in Germania, c’era un modello di cittadinanza che teneva e si stava consolidando, un modello integrativo che si fondava sull’integrazione attraverso il lavoro di fabbrica, grazie a un dete ...[continua]
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