Corinne Auffret è consulente e responsabile per la comunicazione al Planning Familial di Marsiglia.

I matrimoni misti a Marsiglia sono diffusissimi. Ma avvengono soprattutto fra francesi e “gli altri” o ormai si diffondono fra tutti i gruppi etnici?
Quando la gente chiede di che origine siamo, le risposte sono ormai le più varie: “Italiano e algerino, francese e polacco, francese e vietnamita”. E’ la novità di questa generazione, un meticciato estremamente variegato. Solo nell’ambiente in cui lavoro ci sono origini italo-armene, italo-inglesi, italo-francesi, italo-marocchine, franco-spagnole, franco-tedesche, franco-americane, franco-armene, franco-algerine, franco-inglesi, algerino-marocchine, catalane-pieds-noirs, siculo-corso-toscane, padre tuareg-madre tunisina. A volte compaiono quattro paesi, addirittura di quattro continenti diversi, il che, fra l’altro, significa che il meticciato risale ai nonni. Non è una situazione ancora del tutto integrata nella mentalità. Ci sono associazioni che dicono: “Noi facciamo un’azione per gli algerini, per i maghrebini, per gli africani, per i neri”. Tuttavia, man mano che le persone si integrano, si mescolano, non rientrano più nelle categorie etniche, nazionali o razziali. Questa è la realtà sebbene non sia ancora entrata nella mentalità della politica.
Il fenomeno che vedete al Planning è diffuso oppure è ancora limitato a piccoli gruppi?
Penso che sia un fenomeno molto diffuso, ma i sociologi, gli antropologi, i politici non se ne occupano ancora. Sarà la tappa successiva dell’integrazione. Anche in Germania, dove c’è una politica multiculturale, dove cercano di fare case per stranieri, hanno a che fare con persone che non sono del tutto straniere, che sono mescolate.
Ci hai detto di essere francese ma di origine polacca, come ti consideri?
La storia della mia famiglia, l’emigrazione dalla Polonia la conosco: parlavo polacco con mia nonna, ma ora non lo capisco più. Resto legata a una storia. Perciò continuo a dire di essere di origine francese e polacca. Non è il nome, il nome si è perso; resta la memoria ed è così per molta altra gente: a volte è la lingua che rimane, a volte dei legami col paese o la memoria della storia, a volte il nome.
Ognuno ha qualcosa da conservare per restare legato alle proprie origini. Per gli italiani è sicuramente importante la cucina. Cosa ti rimane della tua parte polacca?
E’ la storia, la memoria familiare che si trasmette. Una storia un po’ romanzesca come molte storie di emigrazione.
Cos’ha detto la tua famiglia quando hai avuto una figlia con un compagno che è franco-vietnamita?
Sono in contatto con la famiglia di mia madre, una famiglia della Francia centrale, di ambiente rurale. Non hanno detto niente. La ragazza di mio fratello è per metà nera e suo figlio è per un quarto nero. Questo succede sempre di più, si chiamano le “famiglie Benetton” ora.
Qualche anno fa in Gran Bretagna si parlava anche di “famiglie Lego”: i miei figli, i tuoi, i nostri, i suoi. La domenica ci si ritrova tutti insieme, a volte in combinazioni diverse da una domenica all’altra...
Anche qui comincia a succedere. In Francia si chiamano normalmente “famiglie ricomposte”.
Qui al Planning avete lavorato molto con donne straniere. Vuoi parlarcene?
All’inizio il personale francese faceva fatica con le donne straniere perché queste continuavano a ripetere che non le potevamo capire perché nei loro paesi era diverso. Quindi il dialogo era bloccato. Ho cercato di lavorare sulle differenze e sulla possibilità di superarle. Alla fine ho visto che le differenze non sono tante, e tuttavia quelle poche rischiano di bloccare tutto. C’erano due momenti nel lavoro: prima assistevo agli incontri condotti dalle colleghe e ascoltavo quello che la donna o la coppia francese o straniera diceva, e poi lavoravo tutti i martedì con l’équipe discutendo di quello che avevo osservato, o guardando dei film per riflettere sulla storia dell’immigrazione in Francia e sulle motivazioni per le quali la gente è venuta qui.
Che conclusione puoi trarre da questo lavoro?
L’alterità culturale è il problema più difficile. Ad esempio, una donna che veniva da noi era soggetta a violenze nel rapporto di coppia e lo considerava normale: “Lui è arabo e io sono cabila, gli arabi sono così”. La consulente, allora, diceva che non conosceva la cultura araba, che lì al Planning si lavorava sul rapporto uomo-donna, sulla violenza coniugale da 30 anni, e che ...[continua]

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