José Ramos Regidor è uno dei maggiori esponenti della teologia della liberazione; è stato docente di teologia alla Pontificia Università Salesiana di Roma; tra le sue pubblicazioni Il sacramento della penitenza e Gesù e il risveglio degli oppressi.

Che ruolo ha avuto l’incontro con gli indios nella teologia della liberazione, legata tradizionalmente al tema della lotta di classe?
Ad un certo punto, nell’ambito della teologia della liberazione abbiamo cominciato a intuire che, oltre alla lotta di classe, importante e necessaria affinché gli indios non facessero la fame, era altrettanto necessario riconoscere che gli indios hanno una cultura e una religione che per ben 500 anni abbiamo completamente ignorato o, peggio, che abbiamo cercato di dominare come fosse una cosa diabolica.
Mi sembra che la conquista principale del dibattito svoltosi intorno al ’92 è che esistono culture diverse, modi diversi di pensare, di essere, di giudicare la realtà, e che un pensiero etico non può prescindere dal punto di vista dell’altro, che contribuisce anche al riconoscimento di noi stessi, alla formazione della nostra identità. Riconoscere l’altro significa infatti che anche l’altro deve riconoscere noi stessi. Naturalmente, non bisogna essere ingenui e vedere in questo riconoscimento dell’altro solo l’aspetto positivo: l’altro, come tutti gli esseri, come tutti i popoli, ha aspetti positivi e negativi, che nel corso della storia vanno cambiando proprio grazie all’intreccio fra i diversi popoli. Di qui, il riconoscimento che non siamo una sola cultura, ma una pluralità di cultura. Di qui la critica dell’eurocentrismo.
Noi però non siamo contro l’Europa, perché essa ha una cultura che ha prodotto tante cose importanti, che ci ha portato alla libertà, alla democrazia e alla scienza, però questo non giustifica che la cultura europea si consideri il centro di tutto l’universo, cercando di utilizzare, sfruttare o bloccare le altre forme di civiltà. Dunque, rifiuto dell’eurocentrismo, ma anche di ogni possibile etnocentrismo: quando lavoriamo per chiedere l’autodeterminazione degli indios, non significa creare uno Stato nello Stato; loro non chiedono questo. Un’assolutizzazione dell’autodeterminazione può portare, com’è accaduto nell’ex-Jugoslavia, anche a sentirsi in diritto di ammazzare gli altri.
Cos’ha significato per la teologia della liberazione l’incontro con le tematiche ecologiste?
La crisi ecologica ci ha portato a ripensare e riformulare il rapporto fra l’uomo e la natura. Alcune date sono importanti: Cernobyl, innanzitutto, ma anche il fatto che a partire dal 1988 si sono aggiunti un impegno e una riflessione, insieme ad Alex Langer e a tanti altri, sul problema del debito nord-sud, in cui questione sociale e questione ambientale sono strettamente intrecciate, perché il debito distrugge la natura e i popoli allo stesso tempo. Abbiamo scoperto che la radice di un modo di produzione che porta alla distruzione della natura è l’ideologia della crescita quantitativa illimitata, un’ideologia che, man mano che la rivoluzione tecnologica ha preso coscienza delle proprie possibilità, è diventata ossessiva. Ora ci rendiamo conto che, con la globalizzazione dell’economia, per la prima volta in forma massiccia, l’aumento della produttività non produce un aumento di lavoro. Ora tocchiamo con mano quello che avremmo dovuto sapere da sempre: la natura è limitata, la natura non ce la fa più e l’ideologia della crescita illimitata, che anima il capitalismo, può provocare la distruzione dell’umanità.
Oggi, sempre più si riconosce la necessità di condividere un’etica che tenga presente il limite.
L’esempio di Chico Mendes è stato importante per voi?
I popoli poveri dell’Amazzonia non possono vivere senza l’Amazzonia ma neppure l’Amazzonia può vivere senza i popoli poveri, questa è la posizione che loro sostenevano. Chico Mendes diceva che erano stati gli indigeni a insegnare loro il modo di utilizzare la “siringa” con l’albero del caucciù. Il caucciù era scomparso da quasi tutte le parti, perché tagliavano gli alberi e occorreva tantissimo tempo perché ricrescessero. Per farci capire, ci portarono dentro la foresta: quattro ore per arrivare e poi altre quattro per ritornare, con insetti di tutti i tipi che ci tormentavano e l’acqua fino al ginocchio. Loro dicevano: “Questa è la strada che il siringeiro deve fare ogni giorno, passa quando il sole arriva e ritorna quando il sole se ne va. Ogni giorno riesce a fare ...[continua]

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