Eugenia Lamedica ha conseguito il dottorato in Storia del pensiero filosofico presso l’Università di Verona. Ha pubblicato Dal fondamento alla fondazione. Hannah Arendt e la libertà degli antichi, Mimesis, 2016. Vive a Belluno.

Hannah Arendt ha un atteggiamento ambivalente verso il ’68. Possiamo partire dall’aspetto positivo, spiegare cosa vede di positivo nel ’68? E poi vedere l’aspetto negativo…
Allora, forse ho un po’ esagerato la dicotomia, ma non penso in modo arbitrario, mi pare di aver riportato la sua opinione sui movimenti degli anni Sessanta abbastanza fedelmente. Intanto teniamo presente che, dal punto di vista degli Stati Uniti d’America, parlare del 68 vuol dire parlare dei Sixties, i lunghi anni Sessanta, perché è la concatenazione di eventi che parte dall’inizio delle proteste per i diritti civili nel ’55 a Montgomery, con le lunghe marce di cui poi Martin Luther King diventa il leader, ad aprire gli occhi agli studenti bianchi americani. Si tratta di una lunghissima stagione di proteste, di presa di coscienza nella società, non soltanto di un anno folgorante come in Europa… o più che altro di un mese: il maggio.
Cosa ci vede di positivo la Arendt? Ci vede la rinascita, la riscoperta della politica, della pòlis, della comunità, non tanto in senso comunitarista, concetto che le è estraneo, ma nel senso dell’esserci, dell’essere presenti e agire per suscitare e mantenere vivo uno spazio pubblico, lo spazio che si crea tra le persone e che lei chiama "infra”.
Si è spesso notato come Arendt prenda in considerazione solo l’aspetto formale, non contenutistico, delle rivendicazioni degli anni Sessanta e della politica in generale. Però per lei la politica è proprio questo: l’esserci fisicamente, l’agire nelle piazze, il rivendicare una sfera pubblica e suscitarla alla presenza con il semplice fatto di agire e parlare insieme.
In una bella lettera del ’69 all’amica Mary McCarty afferma (con termini forse un po’ altisonanti, ma Arendt è una grande studiosa della tradizione romana, soprattutto di Cicerone) che gli studenti hanno scoperto la res pubblica in senso romano e che la potestas popolare è ritornata al popolo. Il che, appunto, è in perfetta continuità con la sua riflessione sulla rivoluzione americana in quanto portatrice di categorie nettamente diverse da quelle della concezione democratica, plebiscitaria e totalitaria, europea.
La sua visione positiva del 68 nasce da qui, da questo background. Per Arendt quel che conta è l’associarsi, il mettersi insieme allo scopo di intraprendere un’azio­ne comune, tanto che innova anche il concetto di disobbedienza civile sottraen­dola alla tradizione socratico-cristiana in cui è soltanto un atto individuale dettato dalla propria coscienza.
La disobbedienza civile, quindi, come una modalità collettiva ordinaria in una democrazia?
Quella di Arendt è una lettura molto originale della disobbedienza civile. Per lei la disobbedienza civile si inscrive nella tradizione repubblicana e democratica americana, ma non perché l’America sia il paese che ha dato i natali a Thoreau, teorico della nonviolenza e della disobbedienza civile come atto di coscienza: "Mi dissocio socraticamente dalle leggi ingiuste del mondo, quindi non pago una tassa che serve per finanziare una guerra per me ingiusta col Messico e per far ritornare lo schiavismo”. Così la intendeva Thoreau, il che gli costò una condanna a un giorno di galera. Per la Arendt la disobbedienza civile non è un atto individuale, e individualistico, di ribellione, di dissociazione dall’ingiustiza del mondo, ma un’azione, una pratica comune di associazione per testimoniare, per portare sulla pubblica piazza l’opinione organizzata e qualificata di una minoranza che vuole cambiare le leggi ingiuste del mondo. Ecco, la tutela della libertà di manifestare le opinioni delle minoranze secondo lei deve essere un punto forte, cardinale, della Costituzione americana, in cui si prevede anche la libertà di azione oltre che di associazione. Questa, per lei, è proprio la caratteristica particolare, straordinaria della Costituzione americana rispetto alle altre costituzioni europee liberali. Il problema è capire fino a dove questa libertà di azione possa essere  riformulata e strutturata, definita da confini chiari ed evidenti e per farlo si può cogliere l’occasione delle pratiche adottate dalle associazioni di studenti e di giovani disobbedienti. Questa idea della disobbedienza civile come pratica democratica ...[continua]

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