Pierre-Jean Luizard, storico e ricercatore al Cnrs, studioso del Medio Oriente, in particolare di Iraq, Siria e Libano, è membro del Gruppo di sociologia delle religioni e della laicità (Gsrl) a Parigi. Il libro di cui si parla è Le piège Daesh. L’État islamique ou le retour de l’Histoire, La Découverte, 2015.

Per capire il successo di Daesh è necessario ripercorrere la storia dell’intera regione.
Se vogliamo capire le ragioni del successo dello Stato islamico, il ritorno alla storia è essenziale. Dobbiamo indagare la storia "corta”, cioè l’occupazione americana dell’Iraq e le primavere arabe, ma anche la media e infine la lunga, e cioè la genesi degli Stati arabi creati sotto mandato britannico e francese. Nel mio ultimo libro insisto molto su questo, mettendo però in guardia dal rischio di addossare tutte le responsabilità all’origine mandataria di questi che definiamo "stati falliti”. Non c’è infatti un nesso causa-effetto sistematico, bensì una concatenazione di eventi all’origine del fatto che gli Stati della regione non sono riusciti a creare uno spazio pubblico, per esempio. Inoltre, non mancano esempi di Stati fondati in un contesto coloniale che sono invece riusciti a democratizzarsi.
Assieme a dei ricercatori italiani, abbiamo da poco pubblicato una ricerca (Vers un nouveau Moyen-Orient? Etats arabes en crise entre logiques de division et sociétés civiles) su cinque Stati arabi falliti: l’Iraq, la Siria, il Libano, lo Yemen e la Libia. Ebbene, in quest’indagine abbiamo messo a confronto gli stati "mandatari”, quindi Libano, Siria e Iraq, con stati che non hanno avuto una genesi mandataria, come la Libia, nata nel contesto coloniale italiano, e lo Yemen, che non ha un’origine coloniale ma è il risultato della volontà di riunire sotto uno stesso potere centrale delle regioni che non avevano veramente mai vissuto insieme.
Essendo il risultato il medesimo, l’ipotesi è che più che l’origine mandataria, il problema stia nel modello westfaliano, cioè uno stato centralizzato, con delle frontiere, la cui sovranità si fonda nella nazione. Tutti fattori che non hanno funzionato nel contesto mediorientale, perché l’idea di nazione esisteva, ma in modo molto marginale, nelle province levantine; non esisteva per niente in Iraq, per esempio. Lo stesso per le frontiere: non c’erano confini tra la Siria, l’Iraq e il Libano.
Va poi aggiunto che, fin dalle origini, c’è stata un’inclinazione delle potenze mandatarie a rivolgersi alle minoranze per una ragione molto semplice e cioè che era più facile dirigere un paese attraverso queste, piuttosto che attraverso le maggioranze. Di qui il peso delle minoranze arabe sunnite in Iraq, di quelle cristiane in Libano; all’inizio la Francia aveva diviso la Siria in ben quattro entità politiche distinte, lo Stato di Aleppo, lo Stato di Damasco, un territorio (poi Stato) degli alawiti, il Jabal druso.
Questo ha fatto sì che questi Stati soffrissero di un deficit di legittimità fin dall’inizio, una lacuna grave, che non è stata colmata al momento dell’indipendenza, della fine dei mandati. Le vecchie utopie panarabiste o panislamiste sono state infine rimpiazzate da strategie di tipo comunitario che hanno permesso a gruppi regionali o clanici di conquistare il potere nel quadro delle frontiere e degli Stati esistenti. Questo sistema, che né le rivoluzioni né i colpi di Stato hanno intaccato, spiega anche l’esito delle primavere arabe del 2011, degenerate molto rapidamente in modo confessionale ed etnico. Pure nel caso dell’Iraq, dove gli americani hanno preso gli esclusi del vecchio sistema per promuoverli (ma sempre nel quadro di un confessionalismo politico), l’esito è stato infelice, così come in Libano.
Come va letto il fenomeno delle primavere arabe in questo contesto?
Le primavere arabe sono nate per combattere la corruzione, il nepotismo e l’inadeguatezza degli Stati. È emblematico come, di nuovo nell’estate del 2015, sia a Beirut che a Baghdad siano sorti dei movimenti spontanei di cittadini, senza alcun inquadramento da parte dei partiti politici. A Baghdad e a Bassora la popolazione si è mobilitata per protestare contro i tagli di elettricità. Il movimento contro l’inefficienza dei servizi pubblici si è poi trasformato in una protesta contro la corruzione, la cui causa principale è stata attribuita al confessionalismo, alle quote politiche. La stessa cosa è accaduta in Libano, dove vige un sistema di confessionalismo politico dal 1941, il ...[continua]

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