Andrea Lollini è professore di diritto pubblico comparato all’università di Bologna e Fellow Researcher presso lo UC Hastings College of Law, Consortium on Law, Science and Public Health (University of California San Francisco).

Da qualche tempo stai studiando la cosiddetta "neurodiversità” e il suo impatto sulle categorie giuridiche, ma non solo.
Il concetto di neurodiversità è stato per la prima volta impiegato a partire dalla fine degli anni Novanta del Secolo scorso da una sociologa australiana con la sindrome di Asperger: Judy Singer. Esso si riferisce a "disturbi” quali l’autismo, la sindrome di Asperger, la sindrome di Tourette, i disturbi dell’attenzione, l’iperattività, la dislessia, i disturbi bipolari ecc. La clinica descrive tali "diversità” neurologiche attraverso scale o spettri che implicano condizioni individuali, disabilità e, in generale, caratteristiche neurocognitive assai diverse. Generalmente, specie per l’autismo, si fa riferimento al concetto di "bassa” o "alta” funzionalità per indicare il grado di disabilità sviluppato dai soggetti. L’irrompere del concetto di neurodiversità nelle scienze umane è coinciso con un fenomeno di grande importanza, ovvero è progressivamente cresciuto il numero di persone diagnosticate nello spettro dell’autismo o con la sindrome di Asperger che hanno cominciato a testimoniare pubblicamente la loro condizione. Addirittura, esponenti del mondo scientifico hanno svelato di essere in uno degli spettri della neurodiversità e hanno cominciato a impegnarsi per aumentare la consapevolezza collettiva circa queste condizioni.
Certamente si tratta di persone che la clinica definisce ad alta funzionalità; i loro vissuti individuali e le loro storie non possono essere purtroppo generalizzati, ma l’istanza di cui si sono fatti portatori è della massima importanza.
Specialmente negli Stati Uniti, sono nate associazioni che convergono in un vasto movimento: il Self-advocacy movement. È una galassia di attori collettivi o di singoli individui uniti dal fatto di condividere tali condizioni neurologiche. Queste persone hanno cominciato, specialmente attraverso internet e i social network, a fare una sorta di coming out con blog, biografie, forum, dibattiti, attività. Specialmente per ciò che attiene disturbi come l’autismo si è parlato di "rottura del muro del silenzio”.
Anche se molto variegato al suo interno, questo movimento muove da presupposti comuni: da un lato ha abbracciato il concetto di neurodiversità e, dall’altro, ha posto al centro una nuova idea. I tratti che caratterizzano le persone con disturbi del neurosviluppo, altrimenti ritenuti semplicemente disabilità, costituiscono invece una forma d’identità della persona; si rimette così in gioco la contrapposizione tra tipico e atipico, normale e anormale. I termini del discorso si sono spostati dal concetto di malattia al concetto di differenza. Specialmente negli Stati Uniti, il Self-advocacy movement procede come storicamente hanno fatto le minoranze discriminate: chiede l’applicazione del principio d’uguaglianza, rivendica diritti, chiede riconoscimento, accettazione e inclusione. In alcuni casi vi sono anche posizioni radicali che ricalcano modalità di affermazione dell’identità di matrice differenzialista.
In Inghilterra, Stati Uniti e Australia il dibattito che ne è scaturito poggia su due gambe: la prima è scientifica. Protagoniste sono le neuroscienze che sempre di più cercano di comprendere le meccaniche e i funzionamenti neurali profondi (come percepiamo, come ricordiamo, come agiamo, cos’è la coscienza, ecc.). Con riferimento ai "disturbi” sopracitati, le neuroscienze cercano di capire quale grado di disabilità sia strutturale e quindi dovuto ai caratteri specifici dell’individuo (morfologici, funzionali, fisiologici) e quale sia determinato invece da fattori contingenti, sociali ed esterni, dettati dall’interazione con il mondo dei "tipici” che produce esclusione.
L’altra gamba è socio-politica. Protagonisti sono individui e associazioni. Questi operano per riconfigurare il discorso pubblico in termini nuovi: è possibile accettare che ci siano differenze nel "core” dell’uomo, nel fondamento dell’individuo, ovvero nella modalità di funzionamento del suo cervello, senza che tutto questo confini le persone nella spirale della disabilità o, peggio, inneschi odiose gerarchizzazioni.
Ecco quindi la questione che è alla base della mia ricerca in quanto giurista: il principio ...[continua]

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