Renzo De Stefani, psichiatra, è primario del Servizio di salute mentale di Trento.

Dal 1999 coordini il Servizio di Salute Mentale di Trento, che hai impostato cercando di mettere al centro la "competenza” di utenti e familiari. Puoi raccontare?
Quando sono arrivato a Trento, questa era una realtà pochissimo efficace ed efficiente, non avevamo nemmeno quegli standard minimi per offrire, ad utenti e familiari, dei servizi che fossero appena dignitosi. Così io passavo le giornate ad ascoltare familiari molto arrabbiati, legittimamente dal loro punto di vista, perché le cose non funzionavano in termini di risposte ai bisogni presenti.
Prima di quell’esperienza avevo avuto la fortuna di vivere dieci anni in Val di Non dove avevo lavorato dagli anni Settanta alla fine degli anni Ottanta; un periodo entusiasmante perché erano gli anni post-legge 180, era una valle piccola, eravamo 15 giovani entusiasti, era stata insomma una bella avventura.
Arrivato a Trento trovai invece una situazione disastrosa sotto tutti i punti di vista. Così cercai di operare, fin dall’inizio, su una sorta di doppio binario: da una parte, come responsabile di questo servizio, facevo il mio mestiere che era quello di trovare risorse, di mettere in piedi strutture, ecc.; accanto a quella che si può considerare ordinaria amministrazione, c’era però anche il tentativo di coinvolgere utenti e familiari nei loro percorsi di cura.
Un’operazione tutt’altro che facile perché bisognava intanto convincere i singoli medici che non erano molto interessati a questa dimensione. Nel 1999 riuscimmo comunque a mettere in campo delle piccole iniziative in cui utenti, operatori e familiari cominciassero a conoscersi e a condividere delle cose, ricucendo quella cesura che si era creata tra il mondo del servizio e il mondo degli utenti e familiari.
Nacquero così tutta una serie di gruppi di auto aiuto, un ottimo strumento per far sì che le persone diventassero più consapevoli e più responsabili della strada da percorrere.
Il modello era quello che metteva al centro il sapere del cosiddetto "esperto per esperienza”, cioè la testimonianza attiva di chi ha la depressione o sente le voci, ecc.
Parallelamente alla nascita di questi gruppi di auto aiuto individuammo due aree dove ci sembrava importante marcare quest’idea del "fare assieme”. Una era il rapporto con i familiari che, come dicevo, erano veramente inferociti. Per cominciare scrivemmo loro una lettera in cui chiedevamo scusa per tutto quello che non aveva funzionato, anche di grave, in questi anni e spiegavamo cosa volevamo fare. Avevamo individuato 300 famiglie con situazioni particolarmente critiche: le invitammo a frequentare dei gruppi che chiamammo "cicli familiari”; dieci incontri di due ore ciascuno in cui si trovavano una quindicina di famiglie e qualcuno di noi, intanto per ricevere delle informazioni, e poi per dare la possibilità ai familiari di incontrarsi, non solo per sentirsi meno soli, ma anche per attivare quello scambio di saperi che per alcuni di noi era fondamentale. L’idea era che noi potevamo offrire ai familiari le nostre competenze professionali e loro potevano condividere con noi le loro competenze esperienziali.
Si costituì così un primo gruppo di familiari che aveva visto nel servizio una possibile casa comune. In quelle due ore scegliemmo (perché ce lo chiesero i familiari) di dare spazio soprattutto a tutte quelle cose concrete che potevano, dal loro punto di vista, migliorare la qualità delle prestazioni.
Nel primo ciclo, ad esempio, una mamma raccontò come per lei fosse stato drammatico il primo ricovero del figlio in reparto perché non capiva niente -il mondo della psicosi l’aveva distrutta. Così disse: "Sarebbe bello che una di noi mamme fosse presente nel reparto a fianco degli operatori per informare e stare accanto ai familiari”.
Ci parve subito un’idea geniale. Da allora e per cinque anni questa mamma fu presente nei reparti un giorno alla settimana. Non furono centinaia le mamme o i papà che andarono a chiederle un consiglio, ma la presenza della signora in reparto mise in crisi quegli operatori che concepivano il servizio come un qualcosa quasi di privato, per cui c’erano solo loro; il resto del mondo non doveva immischiarsi, non si doveva disturbare il manovratore.
Poi nacque il Tavolo di Leopoldo. Di cosa si tratta?
Anche in questo caso facemmo girare una specie di lettera aperta a un utente di fantasia che chiamammo Leopoldo, un po’ ...[continua]

Esegui il login per visualizzare il testo completo.

Se sei un abbonato online, clicca qui accedere, oppure vai alla pagina Abbonamenti per acquistare l'abbonamento online.
Gli abbonati alla rivista hanno diritto all'abbonamento online gratuito!