Latifa Lakhdar è professoressa di Storia Contemporanea all’Università di Tunisi ed è una specialista del pensiero musulmano. Ha pubblicato: Les femmes au miroir de l’orthodoxie islamique (edizioni de l’Aube, 2007) e L’islam confrérique et la question nationale dans la Tunisie coloniale, 1994. Latifa Lakhdhar ha fatto parte dei movimenti associativi e politici democratici tunisini.

Cosa è successo in Tunisia? Vi aspettavate una cosa così "grande”?
No, affatto. Lo dico sinceramente e credo sia una cosa condivisa da tutti i tunisini.
È successo che Mohamed Bouaziz, venditore ambulante di Sidi Bouzid (città a 300 km da Tunisi, ndr) si è dato fuoco perché gli era stato impedito di lavorare: tutto è cominciato da lì. Sono seguiti dei moti popolari nelle diverse regioni della Tunisia, e si sapeva che erano piuttosto consistenti. Ma nessuno di noi immaginava che saremmo arrivati a sbarazzarci di questo dittatore e con questa velocità. Questo ci ha lasciati tutti sorpresi: la partenza di Ben Ali corrispondeva a un vera domanda popolare e politica sotterranea, ma non avremmo mai pensato che le cose sarebbero avvenute con questa velocità. Penso che questa rapidità e intensità degli avvenimenti corrispondano perfettamente all’intensità dell’oppressione che abbiamo subìto durante gli ultimi ventitrè anni.
Quella in Tunisia è stata una rivolta dei giovani?
In realtà, sono le regioni più povere che hanno innescato la rivolta, ma c’è stata una vera e propria unione tra questa sofferenza espressa dalle regioni povere e questi giovani estremamente moderni, all’avanguardia, che hanno partecipato con i mezzi della tecnologia globale rinforzando e alimentando questa insurrezione che è diventata, verso la fine, una vera rivoluzione. Il ruolo di Internet è stato indubbiamente centrale. E anche molto di più.
Voglio dire che se un simile sollevamento popolare, fosse accaduto nelle stesse regioni vent’anni fa -e quindi senza questi mezzi di comunicazione efficaci, immediati e straordinari- le cose sarebbero andate in modo totalmente diverso.
Le donne hanno partecipato a questa rivolta?
Hanno partecipato in quanto donne e in quanto coscienza femminile nel senso più ampio. Con questo voglio dire che non hanno partecipato al movimento in senso ideologico, come "movimento femminile”: in qualche modo sono state "superate” dal movimento. Nelle regioni più povere, come a Sidi Bouzid (dove sono anche state maltrattate dalla polizia presidenziale) hanno partecipato soprattutto come madri; le donne dell’élite impegnata hanno avuto più una funzione di accompagnamento.
Tuttavia sarebbe inesatto dire che le donne hanno condotto o dato forma a questo movimento. Nessuno può assumersi il ruolo di aver dato vita a questo movimento. È stato un movimento popolare spontaneo, rinforzato dai metodi "moderni” della gioventù.
All’università dove insegna ci sono stati disordini?
No, affatto. Ma questo è dovuto al fatto che dal 14 gennaio scorso è stato introdotto il coprifuoco dentro l’università, con una sospensione generalizzata dei corsi.
Proprio oggi c’è stata una riunione con il preside di Facoltà per sapere come fare in futuro perché gli esami non sono stati terminati. Bisogna sapere che l’università tunisina è estremamente politicizzata, così come lo sono gli studenti, che hanno un’organizzazione sindacale che è stata tenuta sotto controllo e repressa. Alcuni studenti sono appena usciti di prigione: erano stati incarcerati a causa di richieste di alloggi o facilitazioni o borse di studio. Gli studenti sanno cosa li aspetta, dopo l’università: la disoccupazione.
Nelle nostre università vigono delle tradizioni democratiche, che il potere di Ben Ali ha cercato di bloccare. Ad esempio, i presidi sono eletti, così come il Consiglio scientifico. I Doyen, i nostri presidi, hanno sempre cercato di negoziare con gli studenti -negli stretti margini di libertà che rimanevano- perché da oltre vent’anni avevamo la polizia all’interno delle università: in ciascuna c’è un posto di polizia.
Il nostro Doyen ci ha detto oggi che la stazione di polizia dentro la Facoltà di Lettere e di Scienze Umane di Tunisi contava 40 poliziotti, che parassitavano le risorse della facoltà, costretta a pagare le loro bollette del telefono, che tra l’altro veniva usato per fare rapporti su insegnanti e studenti. Si trattava di fatture enormi che, a un certo punto, il Doyen si è rifiutato di pagare e ha fatto bloccare il telefono.
Ora l’importante è ...[continua]

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