Annamaria Testa è titolare dell’agenzia Bozell Testa Pella Rossetti Spa. Insegna all’università La Sapienza di Roma.

Cosa sta cambiando nei messaggi pubblicitari? E in che misura segnalano cambiamenti profondi nella società? Le faccio un esempio: da qualche tempo si sentono sempre più inflessioni dialettali, si vedono visi più “normali”. Significa qualcosa?
Secondo me questo è assolutamente casuale. Ricordo che quando ho cominciato a fare pubblicità, nel ’74, una delle prime campagne che ho visto realizzare, non ricordo più per quale prodotto, era in dialetto. In pubblicità ci sono davvero poche cose realmente nuove. Nello spot del “Maxibon”, per esempio, il dialetto ha una funzione caricaturale, serve a evocare un’atmosfera strapaesana, appartiene all’universo delle macchiette: il napoletano “core e mandolino”, il romagnolo che punta le ragazze sulla spiaggia, il genovese avaro e il milanese, una volta con “il coer in man” e adesso lasciamo perdere... E d’altra parte “Gregorio er guardiano del Pretorio” parlava in romanesco già negli anni ’60, il “Caballero di Carmencita” parlava in un finto spagnolo. Non sono questi tipi di espressività che fanno tendenza, sono l’universo e il sistema espressivo che che ci stanno dietro a cambiare. Se noi prendiamo in mano delle campagne fatte negli anni ’60, delle campagne fatte negli anni ’70, altre fatte negli anni ’80 e altre ancora fatte adesso scopriamo che ci sono delle coerenze e dei mutamenti.
Ricorda la pubblicità degli anni ’60, “Carosello”? C’era una specie di mondo dei consumi incantato, favolistico, con una forte componente artistica e narrativa e l’universo dei prodotti era magico.
Pensiamo all’Italia che finalmente era uscita dall’indigenza della guerra e si trovava di fronte a una grande offerta di beni: che magia! E nello stesso tempo la pubblicità aveva una funzione didattica, spiegava come usare i prodotti. Ho visto recentemente una mostra di campagne pubblicitarie dell’immediato dopoguerra e lì si spiegava come bisognava lavarsi i denti o che c’era un’alternativa, per lavarsi la faccia, al sapone di Marsiglia. Erano favole che contenevano un’informazione, come molte delle favole che raccontiamo ai bambini contengono informazioni per la vita. L’universo dei consumatori era un universo bambino e sbalordito di fronte ai prodotti.
Negli anni ’70, invece, c’è stato un pesantissimo irrigidimento ideologico nei confronti della pubblicità, serva del capitalismo. Il consumismo che plagia, le multinazionali, ecc. Furono anni pesanti, anni in cui per una persona di sinistra decidere di fare pubblicità generava -per me è stato così- una serie di contraddizioni piuttosto dure, specie nel momento in cui si scopriva che dietro il fenomeno pubblicitario c’era un altro fenomeno che si chiamava marketing, che era facile vedere come un plagio dei consumatori. Negli anni ’70 la parte più consapevole, attenta e sensibile della pubblicità parlava di consumi in modo reticente, sotto le righe, usava molto l’understatement, l’ironia. Il prodotto veniva fotografato così com’era, spesso scontornato su sfondo bianco, i titoli erano sottili, ammiccanti, interlocutori, c’era una serie di excusationes non petitae, di scuse non richieste, dentro il fare pubblicità. L’inizio degli anni ’80 è stata una grande riforitura e una grande riconciliazione fra consumatori e messaggio pubblicitario: le più belle campagne prodotte in Italia secondo me appartengono, in gran parte, all’inizio degli anni ’80. Se noi guardiamo i repertori di pubblicità degli anni che vanno dall’81 all’84, vediamo proposte molto innovative. Ma era innovativo il mondo dei consumi: partiti dall’incantamento infantile, passati poi attraverso un rifiuto adolescenziale, si è arrivati, da parte del consumatore, a una maturità consapevole. Disinvoltamente il pubblico si avvicina a dei prodotti cominciando ad essere in grado di fruire, come fossero due offerte distinte, sia il messaggio pubblicitario e che l’offerta di consumo. La pubblicità in se stessa, cioè, veniva vista come prodotto dell’azienda. In quegli anni è scoppiato il fenomeno delle tv private, l’offerta di spazi e tempi pubblicitari si è ampliata in maniera mostruosa. Ricordo che nel 1983, quando uscì Reporter, il quotidiano diretto da Deaglio, mi chiesero di fare un articolo sulla pubblicità.
Io che non amo molto le teorie feci una cosa molto semplice: mi misi davanti alla televisione e scrissi tutto quello che vedevo in una serata durante la trasmis ...[continua]

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