Irina L’vovna Dobrohotova è membro del Consiglio di Coordinamento del Comitato Madri dei Soldati di Russia - Mosca.

Il primo viaggio è stato a Groznyj, dalla fine di gennaio alla metà di febbraio. Portavamo con noi aiuti umanitari, medicinali ecc., ma non eravamo andate solo per portare materiale ma anche per vedere cosa stava succedendo. In quell’aeroporto arrivavano aerei militari da tutte le parti della Russia. Da Ekaterinburg erano partiti due reggimenti, e con noi c’era anche la Presidente del comitato di Ekaterinburg proprio perché di questi ragazzi non si era saputo più niente. Erano i reggimenti 81° e 129°.
Nemmeno tra i feriti siamo riuscite a trovare qualche soldato di questi reparti, finché qualcuno ci disse che erano stati uccisi tutti da qualche parte. Il comandante del reparto 129° dichiarò in televisione che il reggimento era completo e che erano tutti vivi, che stavano tutti bene. Mentiva: erano morti tutti già il primo gennaio. Ma non esiste un elenco stabile dei membri dei reparti. I reparti ci sono sempre, sono i ragazzi che li compongono che cambiano. Ci avevano promesso di istituire una “linea calda” per i genitori, noi avevamo chiesto di avere l’elenco dei feriti, ma nemmeno noi riuscivamo a telefonare e l’elenco, chi lo ha mai visto!
Mentre eravamo a Mozdok, -la guerra era iniziata da poco, da un mese circa-, visitammo l’ospedale militare: i ragazzi erano già spezzati, erano già a brandelli, feriti, demoralizzati, un ragazzo di Kolomna ci raccontò che davanti ai suoi occhi era stato ucciso tutto il suo battaglione, di tutto il battaglione era rimasto solo lui. Pregava che lo aiutassimo a restare. Non volle scrivere neanche una lettera a casa. A quel tempo il nostro comitato era già assalito da donne che cercavano i propri figli, ma i militari non dicevano niente a nessuno. Bene, questo ragazzo non volle scrivere niente: “Cosa posso scrivere, posso solo farli preoccupare”. Quando tornai a Mosca chiamai la madre di questo ragazzo, non sapeva niente, non sapeva che era in Cecenia, ferito, si sentì male mentre parlava con me, allora qualcun altro prese il ricevitore, e io gridavo che la ferita era leggera, ma ormai non capivano più quel che sentivano.
Noi distribuivamo ai soldati fogli e matite, li esortavamo a scrivere, per permettere alle madri di venire, ma loro non lo facevano, e i medici non ci aiutavano. Non c’era nessuna informazione riguardo a dove si combatteva, quanti erano stati uccisi, quanti prigionieri. Del resto i ragazzi parlavano soltanto quando potevamo entrare nelle corsie senza accompagnatori. Un’altra cosa non bisogna dimenticare: dicono che tutti sono volontari, che tutti hanno firmato volontariamente per andare in Cecenia, ma mentono. I ragazzi raccontano che la notte il sergente li sveglia per fare firmare loro una carta, perché si è dimenticato il cambio della biancheria, dice, e dopo due settimane si ritrovano volontari in guerra.

Tutto era nato nell’89, quando, per la prima volta, avevano cominciato ad arruolare gli studenti dei primi corsi, ragazzi del secondo anno, malgrado che, secondo il codice militare, gli studenti universitari avessero diritto all’esenzione dal servizio. Allora il servizio militare durava due anni ed era prevedibile che molti di loro, al ritorno, non avrebbero continuato gli studi. Marja Ivanovna Kirbasova il cui figlio diciottenne, Sergej, studente universitario, in buona salute, era morto nell’86 mentre svolgeva il servizio militare in tempo di pace, -per nonnismo, come mediamente succede ad altri 6.000 ragazzi di leva ogni anno-, riunì le donne attorno a sé, soprattutto le madri dei compagni di studio di suo figlio, e iniziarono a parlare di quanto era successo ai loro figli nelle mani dei militari. Poi, grazie al giornale del Komsomol, durante una festa, organizzarono a Mosca, nel dicembre dell’89, la prima manifestazione non proibita dell’Unione Sovietica. Non gli fu permesso di spingersi lontano, ma comunque fu la prima manifestazione. In seguito, divennero evidenti tutta una serie di problemi collegati al servizio militare, atti di crudeltà, nonnismo, si venne a sapere che c’era un altissimo tasso di suicidi tra i ragazzi di leva. Ovviamente, per i comandanti era più conveniente registrare le morti come suicidi che come incidenti o risultato di azioni criminali da parte dei commilitoni più anziani. E così parecchi ragazzi scappavano, disertavano.

Per il Ministero della Difesa, per legge, un soldato, prima di essere mandato ...[continua]

Esegui il login per visualizzare il testo completo.

Se sei un abbonato online, clicca qui accedere, oppure vai alla pagina Abbonamenti per acquistare l'abbonamento online.
Gli abbonati alla rivista hanno diritto all'abbonamento online gratuito!