Benedetto Vecchi è giornalista de il manifesto.

Cosa sono, nelle metropoli contemporanee, i centri sociali?

Visitando i centri sociali mi torna sempre in mente la frase di un tenente di polizia nero in un film americano, Predator 2, il quale percependo qualcosa di alieno in città dice: “abbiamo un nuovo ospite in città”, ed è un nuovo ospite che non rispetta nessuna delle regole del gioco. A me sembra che i centri sociali siano questo: comunità che coinvolgono soprattutto giovani, basate su affinità elettive, su un comune sentire rispetto a un oggetto specifico che può essere la musica, l’abbigliamento, i consumi culturali, giovani che sono un ospite indesiderato, qualcosa di alieno alla normale vita cittadina. Ma la nascita di centri sociali del genere è un fenomeno riscontrabile in tutto l’occidente capitalistico e segue le trasformazioni avvenute nelle metropoli. Nella perdita di centro della città, nella metropoli come insieme di città che convivono in un unico spazio, il “centro” risulta essere quasi l’alter ego della “perdita di centro della città”. C’è il desiderio, in chi occupa uno stabile o una palazzina, di avere un luogo dove incontrarsi, facilmente individuabile nel territorio, ma che sia anche “strategico”, che permetta cioè un rapido spostamento da quella posizione nel territorio circostante. Nel venir meno dei luoghi tradizionali di aggregazione, dai luoghi di lavoro “forti”, ai partiti politici di massa, alle chiese, alle associazioni, si crea un centro di aggregazione del tutto inusuale, dove viene auspicato e desiderato, un sentire comune che ha a che vedere con la rappresentazione di sé come persona portatrice di uno stile di vita sostanzialmente diverso, altro da quello dominante, riesce a riunire e a confondere tempo di vita, di lavoro e iniziativa politica.
Come si sviluppano in Italia?
Ora, la nascita dei centri sociali in Italia ha una stretta parentela con la diffusione in Italia della cultura punk, intesa come consumo di un certo tipo di musica e di uno stile di vita molto aggressivo nei confronti del resto della popolazione che abita la metropoli. Accanto a questo, si è sovrapposta, ha convissuto, per un accidente della storia, una possibilità di iniziativa politica che, pur partendo dalla consapevolezza di essere una comunità elettiva basata su una sottocultura, non riguardasse solo il centro sociale, ma che potesse coinvolgere anche il territorio circostante. Dopodiché l’essere espressione di una comunità elettiva e il fatto di poter diventare un luogo di iniziativa politica sono entrati in una sorta di reazione chimica per cui nei centri sociali, i giovani che partecipavano più direttamente alla loro gestione, hanno pensato di far sì che questi diventassero anche luoghi dove sviluppare delle attività produttive, che dessero reddito, che garantissero un’autonomia economica ai giovani del centro, ma che fossero contemporaneamente una sorta di contraltare, di negazione del lavoro salariato, del lavoro sotto comando. Un lavoro deciso nei tempi, nelle modalità, da chi metteva in piedi una cooperativa o una società editrice, o da chi, per esempio, pensava solo di fare una “fanzine” che però potesse essere venduta piuttosto che diffusa militantemente. Così il divertimento stesso, e comunque il consumo, diventa un momento fondamentale non tanto del tempo libero, ma, paradossalmente, del tempo di lavoro. E, a volte, questo ritorna come lavoro diffuso sul territorio perché magari alcune delle conoscenze o esperienze che si hanno nei centri sociali, nati dalla contestazione di un ordine costituito considerato intollerabile, si trasformano in capacità di mettersi sul mercato del lavoro, determinando, molto paradossalmente, un elemento fortemente innovativo per tutta l’industria culturale: l’esperienza delle Posse, del rap italiano, è forse la più emblematica.
Questa seconda fase della crescita dei centri sociali ha incrociato una cultura politica, presente in Italia fin dalla rottura del ’68, fortemente spuria, che mischia elementi di marxismo eretico con la cultura anarchica o più in generale con tutti gli elementi libertari riscontrabili nei movimenti sociali che hanno attraversato l’Occidente capitalistico negli anni ’70.
L’aspetto lavorativo è molto interessante, ma non si rischia di “passare di là” in un certo senso?
C’è sicuramente un circolo virtuoso fra l’emergere di una controcultura e la sua capacità di innovazione dell’industria culturale. Per esempio un i ...[continua]

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