A che punto siamo?
La tossicodipendenza viene affrontata in base ad opinioni allarmate e allertate da 15-20 anni. Si è dunque abituati a confrontarsi da fazioni spesso opposte. Riguardo alla prevenzione, ad esempio, è vero che si spende molto male, ma non è vero che si spende poco, anzi, si spende molto e si è visto come. Si è visto che la logica perversa che sta dietro agli appositi finanziamenti è la stessa logica che ha accompagnato la prevenzione sull’Aids: investire nelle campagne pubblicitarie. Una prevenzione per slogan e spot, che non morde, che non cambia il clima di rigetto del tossicomane, e non cambia neanche la scarsa conoscenza sulla tossicodipendenza stessa. Di conseguenza, abbiamo una ricaduta anche a livello di reinserimento, perché si fanno molti progetti, si scrivono programmi collettivi di reintegrazione del tossicodipendente nel tessuto sociale, ma non si riesce ad integrarne nemmeno uno. La sensibilità sul problema è ancora insufficiente: c’è chi si limita a dire che i tossicodipendenti hanno dei problemi; qualcun altro, invece, che bisogna metterli in galera; altri, che bisogna licenziarli. Solo termini ideologici, dunque. Non si capisce che è anche una malattia. Così, si spende poco e male anche per le cure.
Cosa pensa dei progetti nati per affrontare sul posto di lavoro la dipendenza dalla droga seguendo i tossicomani inseriti nella produzione?
Mi colpisce che si dica che sono state ottenute nuove norme di tutela, quando si arriva ad un inserimento che non va al di là di qualche mese di sperimentazione-formazione. Pochissimi accettano. Ed il rifiuto è doppio: del datore di lavoro, ma anche degli stessi operai. Chi si cura ha bisogno di un margine maggiore sul lavoro. Deve frequentare l’ambulatorio, con un crescente aumento delle visite mediche, dei colloqui e dei relativi permessi: cose che portano ad individuarlo come tossicodipendente, con la conseguente diffidenza, con accuse che portando ad un processo graduale di espulsione. Se il tossicodipendente ha diritto a cure, dovrebbe avere diritto anche all’immunità. E in questo senso c’è da lavorare ancora molto. Ma non certo sposando la tesi di don Oreste Benzi, che ci riporterebbe indietro di anni. Tesi che, come abbiamo constatato, spinge uno su dieci a curarsi, mentre ne abbandona nove al proprio destino. E non è assolutamente detto che il lavoro abbia comunque un valore educativo. C’è gente drogata di lavoro. Per i tossicodipendenti, come per le persone normali, il problema è trovare la soddisfazione di sé; quel piacere che va al di là delle gratificazioni economiche. Sono convinto che il lavoro sia importante, ma non un progetto essenziale. I tossicodipendenti, in realtà, sono molto diversi gli uni dagli altri. Ci sono tossici che, per loro storia, hanno come ragione la difficoltà a trovare comunque la soddisfazione, il piacere. Difficoltà a volte nevrotica, a volte depressiva. Altri, quelli più esposti alle sostanze, rischiano di trovare in esse il piacere che non arriva facendo cose soddisfacenti. Quindi si costituiscono delle forme di tossicodipendenza striscianti, di lungo periodo, che sono spesso compatibili con il lavoro.
La logica di molti sembra essere quella della “terra bruciata”. Finché il tossicodipendente non tocca il fondo non ne verrà fuori.
Il tossicodipendente è affetto da una malattia cronica, difficile da condividere con la società. La vergogna, il rischio di reato, le leggi, lo espongono come un caso particolare. Dovrebbero valere i discorsi che si fanno sui soggetti nevrotici, così diffusi. Cioè: perché egli non può, per certi periodi, compatibili con il lavoro, andare a curarsi per vedere se riesce a risolvere il blocco della propria soddisfazione?
Molti tossicodipendenti che sono già stati in comunità 2-3 volte, si sono sposati, hanno figli e sono anche ricaduti, in maniera strisciante, nella sostanza: a questo punto, cosa gli servono i soldi? Per vivere, come a tutti. La terra bruciata li esporrebbe solo al ricatto di una società espulsiva, che li maltratta o li consegna allo spacciatore. Dovrebbero, invece, individuare laboratori di riferimento per evitare di passare dal “buco di tanto in tanto” al fatto di diventare schiavi della sostanza. In questo senso, oltre alla psicoterapia, ai colloqui e così via, la terapia più sensata può essere l’utilizzazione dei farmaci. Farmaci antagonisti e di lungo periodo come l’antaxone, che rende improbabile il desiderio di bucarsi. Il metadone, anch ...[continua]

Esegui il login per visualizzare il testo completo.

Se sei un abbonato online, clicca qui accedere, oppure vai alla pagina Abbonamenti per acquistare l'abbonamento online.
Gli abbonati alla rivista hanno diritto all'abbonamento online gratuito!