È stata un’occasione per una rozza contrapposizione ideologica in cui si sono mescolate e intrecciate dimensioni diverse: da un lato Davide (Tsipras) contro Golia (il duo Merkel-Schäuble), la povera Grecia contro la ricca Germania, l’Europa tecno-burocratica contro la sovranità del popolo greco, l’ordo-liberalismo nordico contro il solidarismo mediterraneo, il bieco capitale finanziario contro il popolo dei disoccupati affamati. Gli occhiali ideologici servono per dare false certezze di fronte a questioni oggettivamente complesse, servono per deformare la visione, non per cercare di capire cosa succede e che cosa si può fare per evitare il peggio.
Cerchiamo di fare alcuni ragionamenti, il più possibile "fattuali”. Le scienze sociali sono fallibili, ma se non vogliamo affidarci alla Provvidenza, sarà meglio cercare di usarle.
Sappiamo che il Pil pro capite non è una misura molto accurata della ricchezza/povertà di un paese, però, come prima approssimazione non è da buttar via. Il dato ci dice che nell’Ue e anche nell’area-euro la Grecia non è per nulla il paese più povero: Romania e Bulgaria hanno un reddito medio pro-capite inferiore a quello della Grecia, mentre Serbia, Slovacchia, Slovenia, Ungheria, Polonia, Croazia e i tre paesi Baltici e anche il Portogallo si collocano grosso modo al suo stesso livello. Se prendiamo l’Indice di sviluppo umano, che tiene conto di altre variabili socio-culturali oltre al reddito, la Grecia si colloca nella fascia alta della distribuzione, poco lontano da Spagna e Italia e prima del Portogallo e di tutti i paesi dell’Est europeo.
Che cosa distingue la Grecia da altri paesi che non se la cavano economicamente molto meglio? La risposta è unica e ovvia: un debito pubblico enorme che sarà quasi impossibile possa essere rimborsato da un paese che produce poco, esporta poco e ha un settore privato ristretto e molto particolare e un settore pubblico ampio, inefficiente e, in più, anche piuttosto corrotto. Quando la Grecia ha fatto il suo ingresso nella Comunità Europea (1980) era un paese largamente arretrato che usciva da una sciagurata dittatura militare. Averlo accolto nella famiglia europea ha sicuramente contribuito in misura decisiva alla fondazione e al consolidamento di una democrazia che resta comunque fragile. Il consenso è stato acquisito aprendo la Grecia ai modi di vita occidentali, soprattutto attraverso la modernizzazione dei consumi, l’aumento della spesa pubblica, assai più consistente dell’aumento delle entrate fiscali, e quindi mediante l’accumulazione di un cospicuo debito pubblico. L’indebitamento della Grecia ha raggiunto il 170 % del Pil, il che vuol dire che i greci dovrebbero lavorare per quasi due anni gratis per rimborsare i loro creditori, cosa ovviamente impossibile. Oppure, dovrebbero avere un "avanzo primario” (la differenza tra introiti fiscali e spese pubbliche, senza contare gli interessi sul debito) per diverse decine di anni. Vale a dire che lo stato dovrebbe estrarre sotto forma di tasse dai propri cittadini un ammontare di denaro in misura sensibilmente superiore all’ammontare del valore dei servizi resi ai cittadini stessi (in termini di sicurezza, salute, istruzione, previdenza, ecc.). Anche questo è palesemente impossibile, alla lunga se i sacrifici richiesti superano i servizi forniti si erode il consenso minimo necessario per tenere in qualche modo insieme la società. L’austerità, se protratta troppo a lungo, taglia l’erba sotto i piedi della democrazia, oltre a ostacolare la crescita economica.
Certo, i governi greci hanno gravissime responsabilità per quanto riguarda la situazione che hanno contribuito a creare negli ultimi trent’anni, ma se si vuole che finalmente in Grecia possa affermarsi un "buon governo democratico” non si può costringere la popolazione greca a un mezzo secolo di duri sacrifici (e forse mezzo secolo non basta neppure). In tempi di guerra i popoli sono disposti a sacrifici anche estremi, quando sono minacciati da eserciti nemici e quando la loro stessa sopravvivenza fisica è messa a repentaglio. Ma per fortuna siamo (e speriamo di restare a lungo) in tempo di pace e le democrazie, che si fondano sul consenso e non sul terrore, possono chiedere solo sacrifici ragionevoli e temporanei, altrimenti la loro legittimità si logora e si creano condizioni per tendenze anti-democratiche, non importa se di destra o di sinistra. 
La Grecia, il popolo greco, quindi non deve essere "punito” per essersi dato (o aver tollerato) governi irresponsabili, ma deve essere aiutato a costruire un’economia "sana” e uno stato abbastanza "efficiente” che ne renda possibile l’appartenenza alla famiglia dei popoli europei. Detto brutalmente, bisogna che i creditori si accontentino di interessi molto bassi e che si convincano che il capitale prestato verrà restituito, forse, solo a lunga scadenza.
Da che mondo è mondo, c’è una legge implacabile: chi si indebita (al di là di un ragionevole livello per superare difficoltà temporanee) si mette nelle mani dei creditori, rinuncia alla propria libertà (se è un individuo), alla propria sovranità (se è uno stato). Ciò non vuol dire che non ci si debba mai indebitare. Per una parte dell’opinione pubblica tedesca i "debiti” equivalgono a delle "colpe” (non a caso la lingua tedesca usa la stessa parola per designare entrambe). Ma i tedeschi che la pensano in questo modo sbagliano. I debiti possono essere necessari e anche molto utili.
Il segreto sta nell’uso che viene fatto delle risorse prese a prestito. Un conto è se ci si indebita per consumare di più (più di quanto si produce), oppure se ci si indebita per investire di più, per produrre una ricchezza che consenta eventualmente in futuro di consumare di più.  C’è un modo vizioso e un modo virtuoso di indebitarsi. Chi ha governato la Grecia negli ultimi trent’anni ha privilegiato la prima piuttosto che la seconda alternativa. Ora deve cambiare rotta, non tanto perché glielo impone l’Europa (o, meglio, la Troika, Bce, Commissione Ue e Fmi), ma perché dovrebbe comunque farlo se vuole restare agganciata al carro (invero, traballante) delle democrazie europee e riacquistare la fiducia dei paesi creditori e dei mercati finanziari.
Il carro è effettivamente traballante. L’Europa si è infilata in un vicolo cieco, perché la sovranità sottratta agli stati (in particolare la sovranità monetaria) non è stata trasferita a un potere sovranazionale democraticamente costituito, ma ha finito per accumularsi nelle mani dei paesi creditori e, in particolare, della Germania, che rischia così di assumere, magari senza volerlo, il ruolo di potenza egemone. In questa situazione, non ci si può stupire più di tanto che, per i paesi creditori, Germania in testa, l’interesse nazionale immediato passi davanti all’interesse collettivo europeo di lungo periodo. È difficile, se non impossibile, convincere i tedeschi che le tasse che devono pagare servono (anche) per coprire i debiti fatti in passato dai governanti greci.  Già molti tedeschi si lamentano di dover pagare più tasse per sostenere lo sviluppo delle regioni orientali dell’ex-Repubblica Democratica, figuriamoci quando si tratta di un paese mediterraneo che ha dato pochi segni di virtù. Il partito che proponesse di salvare la Grecia senza contropartite e assicurazioni andrebbe incontro a una sconfitta sicura alle prossime elezioni. Come diceva Claus Offe, il dramma è che quello che bisognerebbe fare (distribuire tra tutti il peso del debito di alcuni) è politicamente impossibile.
La partita non si gioca solo tra Grecia e Germania, ma coinvolge tutti, anche i paesi che sono  allo stesso tempo creditori e debitori, a partire dalla Francia e dall’Italia. L’Italia, in particolare, ha accumulato un debito pubblico gigantesco che è andato assai spesso a finanziare la spesa corrente piuttosto che gli investimenti (ad esempio, nell’innovazione, nell’educazione e nella ricerca), col risultato che da decenni la produttività ristagna, il paese è regredito.  La Francia sta solo un po’ meglio, ma il debito incomincia anche lì a crescere. Il problema, per molti paesi che hanno accumulato troppi debiti, è come abbattere il debito (fiscal compact) e mantenere l’equilibrio tra entrate e uscite. Prima o poi (meglio prima che poi) sarà necessario trovare il modo di mettere insieme i debiti per potersi incamminare, tutti, verso la ripresa. Ma se tutti i paesi guardano al loro interesse nazionale immediato, sostenuto magari da un’opinione pubblica in cui affiorano preoccupanti tendenze nazionaliste ed euroscettiche, siamo finiti.
L’Unione europea rischia la disgregazione e l’Europa rischia di non poter più dire la sua in un mondo globalizzato, dominato da grandi potenze di dimensione continentale.  L’Europa mostra una preoccupante propensione a cullarsi nel proprio declino. Come gli stati italiani del Cinquecento nell’epoca in cui si stavano formando gli stati nazionali. Come la Vienna dell’impero asburgico, con una concentrazione eccezionale di intelligenza e creatività, ma una disarmante inconsistenza sul piano politico.
Per il momento, di fronte al trascinarsi della crisi greca, è stata attaccata una pezza, ma l’abito è logoro e prima o poi si apriranno altri buchi. Si tira a campare, ancora un poco, rimandando di volta in volta le scelte cruciali. L’orizzonte temporale delle classi politiche dei maggiori paesi europei è sempre più di breve, brevissimo, periodo. Le democrazie, ahimè, hanno il respiro corto, non vanno al di là delle prossime scadenze elettorali: bisogna compiacere gli interessi immediati, e anche le opinioni del momento, se si vuole raggiungere il consenso necessario per restare il sella o per aspirare a salirci. C’è, tra le classi politiche dei maggiori paesi europei, una disarmante assenza di visioni strategiche di medio-lungo periodo, l’incapacità di prendere decisioni che possono anche risultare impopolari nel breve periodo, ma che hanno ben chiaro l’obiettivo da raggiungere. In realtà, sono state le classi dirigenti, e le classi politiche in particolare, ad aver abbandonato quello che Jeremy Rifkin aveva chiamato il "sogno europeo”, prima ancora che nelle opinioni pubbliche facesse breccia l’euroscetticismo, se non proprio l’euro-ostilità.
La globalizzazione alimenta le paure, non solo delle opinioni pubbliche, ma anche delle classi dirigenti. Il fatto che l’economia cinese rallenti la sua corsa, che la Russia di Putin minacci i suoi vicini a Occidente, che l’Africa e il Medio Oriente producano cospicui flussi migratori che fuggono dalla miseria e dalla guerra e che premono ai confini orientali e meridionali dell’Europa, tutto è accantonato, non si vede quello che non si vuole vedere. Di fronte a queste sfide, le classi dirigenti, nella maggioranza di casi, nascondono la testa nella sabbia, come gli struzzi.
Ora ci siamo avvicinati pericolosamente all’orlo dell’abisso, vale a dire al naufragio del progetto europeo: o si cade nel vuoto o si incomincia a risalire la china. Il caso greco ci insegna qualcosa: anche Tsipras ha capito che non c’è alternativa all’Europa unita se non la catastrofe. Come Churchill alle soglie della guerra mondiale, Tsipras, dando le dimissioni, ha chiesto al suo popolo un’investitura non promettendo "rose e fiori”, ma "lacrime e sangue”, cioè ancora sacrifici. È, credo, una prova di coraggio e di lungimiranza. Forse la Grecia (e l’Europa) hanno trovato un vero leader. Proviamo a crederci (senza farci troppe illusioni).