Sono cresciute le betulle di Reykjavik. A metà degli anni Ottanta erano solo piccoli cespugli nei giardini ordinati di una città colorata di un verde intenso, ma incredibilmente spoglia di alberi, come il resto dell’isola. Oggi sono piante adulte che svettano eleganti nella bianca corteccia lucente, conferendo finalmente alla capitale un aspetto consono ai capoluoghi del nord. Di quella prima e unica visita in Islanda rammento, in ordine sparso, i termosifoni accesi anche d’estate, le retine metalliche sui fari delle auto a protezione dai sassi delle strade extra-urbane allora in larga parte ghiaiate, l’assenza dei cognomi, almeno nella nostra accezione, e la giornata settimanale senza televisione. Se non ricordo male, era il giovedì il giorno in cui la televisione rimaneva muta e in monoscopio perché la compagnia di stato sospendeva per 24 ore le trasmissioni per dare modo agli islandesi di occuparsi a tempo pieno della famiglia. Oggi, ovviamente, con l’avvento dei satelliti, questo non è più possibile, ma rimane nella mia memoria come lo straordinario tentativo di una comunità isolana di isolarsi ancora di più per coltivare gli affetti domestici e recuperare le relazioni famigliari senza subire lo strapotere intrusivo e devastante del tubo catodico, sostituito adesso dai cristalli liquidi.

In Europa non c’è un posto così diverso e speciale come l’Islanda, ammesso e non concesso che si tratti ancora d’Europa, dato che l’isola si trova a cavallo di una faglia attiva dove si scontrano la placca euro-asiatica con quella americana scatenando la forze oscure ed imprevedibili del sottosuolo. Soffioni, geyser e vulcani costellano il paesaggio di una landa ostile ed inospitale che l’uomo ha imparato nei secoli a conoscere e capire, facendo di necessità virtù. Le condizioni avverse che dovettero affrontare i primi coloni che giunsero nell’anno 870 da queste parti si sono trasformate in formidabili vantaggi per chi ha saputo ostinatamente resistere alla furia delle intemperie.

Se non fosse stato per il crack del 2008 non mi troverei da queste parti, sperduto in mezzo all’Atlantico a ridosso del circolo polare artico. Tutto comincia nell’ottobre di quell’anno quando uno stato piazzato ai vertici delle classifiche mondiali del benessere si ritrova improvvisamente in braghe di tela, travolto dal fallimento delle tre principali banche del paese. Dalla sera alla mattina quella che sembrava un’isola felice con un’economia solida, una moneta forte, un alto tenore di vita ed un elevato grado di protezione sociale si è trasformata in un lembo di terra alla deriva nell’oceano, in balia di uno tsunami finanziario che ha travolto istituzioni e società. "Ci siamo addormentati sugli allori delle nostre fortune e ci siamo svegliati nella realtà delle nostre disgrazie” spiega Ari, l’autista che mi accoglie all’aeroporto. "La krona, la moneta islandese, si è svalutata del 50%, l’inflazione è schizzata al 18%, i mutui sulla casa, indicizzati ad un paniere di valute estere, sono raddoppiati, il prodotto interno è crollato”, ricorda con rabbia mentre mi conduce all’hotel, "per un paese che importa il 40% delle merci che si trovano comunemente sugli scaffali di un supermercato è stata la rovina”. Le tre banche fallite erano già in cattive acque dal 2006, ma gli organi di sorveglianza avevano chiuso un occhio mentre rastrellavano finanziamenti e risparmi anche in Gran Bretagna ed Olanda offrendo vantaggiosi quanto irrealistici tassi di interesse per adescare nuovi clienti.
Quando, poi, non sono state in grado di ripianare i buchi è scoppiata la bolla trascinando il paese nel baratro. Il governo ha potuto fare ben poco dato che l’ammontare totale del valore del patrimonio gestito dagli istituti di credito era undici volte il prodotto interno lordo dell’isola. La sopravvalutazione della moneta a quell’epoca permetteva agli islandesi di condurre una vita al di sopra delle possibilità reali del paese concedendo loro perfino il lusso di volare un paio di volte all’anno in giro per l’Europa a fare shopping. Il ritorno sulla terra non poteva essere più brusco e drammatico.

Nell’agosto di quest’anno il Fondo Monetario Internazionale ha dato il definitivo via libera all’ultima fase del programma economico di ripresa dell’Islanda che aveva per obiettivo la stabilizzazione della valuta, la ristrutturazione del settore bancario e il consolidamento fiscale ponendo, di fatto, fine al commissariamento del paese. Sono stati tre anni duri e pesanti che hanno scosso la popolazione sia nelle tasche che nel morale. Disincanto e sfiducia sono gli atteggiamenti dominanti nell’opinione pubblica che fatica ancora a riprendersi dallo shock. Intanto Geir Haarde, il primo ministro ai tempi del crack, è comparso per la prima volta di fronte ad una corte costituzionale speciale, mai convenuta in precedenza, per rispondere delle presunte violazioni delle sue responsabilità ministeriali riguardanti la crisi. Un esempio, con i tempi che corrono, anche per una democrazia come quelle italiana, dove l’accertamento della responsabilità è un’impresa impossibile o un miraggio improponibile. Il nuovo governo di sinistra, che ha mandato per la prima volta all’opposizione lo storico Partito dell’Indipendenza, ha rispolverato la vecchia opzione, sepolta in un cassetto, di entrare nell’Unione europea presentando formalmente nel 2009 domanda di adesione. In realtà, più che l’Unione in sé, agli islan­desi interessava l’euro, per abbandonare definitivamente la corona islandese, valuta giudicata troppo instabile e ormai inaffidabile. Bruxelles ha accolto favorevolmente la richiesta di Reykjavik e dopo la consueta fase di screening a giugno ha dato ufficialmente il via ai negoziati. Nel frattempo, però, l’Europa, a sua volta, è stata travolta dalla crisi dei debiti sovrani che sta mettendo a rischio la tenuta stessa dell’unione monetaria. Così quella che doveva essere per l’Islanda una navigata trionfale verso un porto sicuro si è tramutata in un periplo senza rotta su un mare in tempesta.  Della stragrande maggioranza degli islandesi che nel 2008 sostenevano l’adesione all’Unione Europea oggi solo un terzo resiste. Agli inizi di settembre è addirittura partita una campagna di raccolta firme per ritirare la domanda ed interrompere così il processo.

È una compagine piuttosto eterogenea quella dei paesi in via di adesione. Si parte dall’ultimo lembo a sud-est del vecchio continente, la Turchia, il cui territorio si trova in larghissima parte al di là del Bosforo e, passando per i Balcani, attraverso la Macedonia e il Montenegro, si arriva al punto più a ovest a ridosso del continente americano. Situazioni e realtà estreme che poco o nulla hanno in comune, se non l’aspirazione, spesso contraddittoria e lacerante, di fare parte di un progetto, quello europeo, mai così in crisi come in questo periodo. Vi è, però, una differenza sostanziale nel percorso di avvicinamento. Con la creazione dell’Area Economica Europea fra i paesi della Comunità e quelli dell’Efta negli anni Novanta, l’Islanda è, di fatto, già integrata nel mercato unico. Per quanto riguarda, quindi, la legislazione europea in materia economica e di commercio non c’è più nulla da trattare. "Sui 35 capitoli previsti 11 sono già coperti e 12 hanno solo bisogno di piccoli aggiustamenti”, sottolinea Stefan Johannesson che guida i negoziati d’adesione.
"Contiamo di aprire la metà dei capitoli entro la fine dell’anno ed il resto entro la metà del prossimo sotto la presidenza danese”, aggiunge, sfoggiando un ottimismo eccessivo in relazione all’euro-scetticismo prevalente, "i veri ostacoli, in realtà, sono rappresentati dalle quattro sezioni che riguardano pesca, agricoltura, politiche regionali e unione monetaria, ma anche per queste siamo fiduciosi di poter trovare un compromesso che possa soddisfare il popolo islandese che alla fine del processo sarà chiamato comunque ad esprimere la propria volontà tramite referendum”.

Porte semi-chiuse per i paesi balcanici, porte sbarrate per la Turchia, porte spalancate per l’Islanda, sembra essere il messaggio di Bruxelles, sempre che i cittadini dell’isola si convincano della bontà della scelta e non facciano come i cugini norvegesi che per ben due volte hanno respinto l’accordo concluso.
Non si può parlare di Islanda senza parlare di pesca, settore che vale quasi il 14% del prodotto interno lordo ed il 42% dell’export. L’ammontare totale del pescato corrisponde all’incirca ad un terzo di quanto pesca l’intera Unione europea. Si tratta, apparentemente, di una quantità di pesce enorme, per certi versi spropositata se si pensa che gli islandesi sono solo 330.000. In realtà le risorse ittiche delle acque attorno all’isola  sono state gestite con oculatezza e lungimiranza, pianificate con un rigido sistema di quote che ha garantito negli anni la sostenibilità. Logico, quindi, che si guardi con sospetto e diffidenza a Bruxelles, le cui politiche non hanno saputo fare altrettanto, anzi, hanno paurosamente depauperato il patrimonio ittico originale generando una crisi irreversibile del settore. Gli oppositori all’Unione paventano orde di pescherecci scozzesi e spagnoli che invadono le acque islandesi per accaparrarsi la più importante ricchezza del paese. È ancora viva nella memoria quella che negli anni Settanta fu definita la "guerra del merluzzo” con le navi da pesca ­islandesi a presidiare e respingere quelle inglesi nelle acque territoriali reclamate da Reykjavik. Jon Bjarnason è l’agguerrito ministro di pesca e agricoltura che ci accoglie ruvido nel suo studio. "Il pesce per noi islandesi non è solo una merce o una fonte di reddito, è una parte integrale della nostra identità”, esordisce, "abbiamo faticosamente raggiunto l’autosufficienza alimentare e non ho alcuna intenzione di barattarla con Bruxelles”. Bjarnason passa come il più acceso e feroce antagonista del processo di adesione e non fa nulla per nascondere o ammorbidire la sua posizione contraddicendo, spesso, gli altri membri del governo, "vogliamo la piena sovranità sulle nostre risorse naturali e non vedo alcuna possibilità di compromesso”, taglia corto. Su un compromesso, però, si sta già lavorando. Il 70% del pesce, infatti, è stanziale all’interno delle 200 miglia nautiche che costituiscono la zona economica esclusiva dell’isola mentre il 30% si muove e vagabonda fra questa zona e le acque internazionali. È su questa fetta che si concentra l’attenzione dei negoziatori con particolare riferimento al maccarello, il nostro comune sgombro, che negli ultimi anni, per ragioni ambientali, ha trovato rifugio da queste parti, mandando in bestia i pescatori norvegesi e delle isole britanniche. Gli addetti ai lavori sono tutti concordi nel ritenere che si può e si deve trovare un punto di accordo suddividendo in modo equilibrato le quote di pescato.

Nell’arco di tre giorni sono passato dai trenta gradi dell’estate tardiva italiana ai canonici quindici del piovoso autunno precoce belga, fino a precipitare ai quattro dell’inverno islandese. Non è stata un’impresa facile trovare il giusto abbigliamento per tutte le stagioni e farlo entrare in un piccolo e agile bagaglio che si adatti ai rigorosi standard della Ryan Air. E non è affatto facile per il mio organismo adattarsi a questi cambi improvvisi di clima. Vento, vento e ancora vento. Forte, tagliente, fastidioso e insistente. Ma, contrariamente alle aspettative e a quanto si trova negli altri paesi nordici, non ci sono pale eoliche nel panorama isolano. La ragione è presto detta: l’Islanda è ricca di energia rinnovabile e a basso costo e non ha alcun bisogno di ricorrere a quella del vento. L’80% dell’energia primaria di cui ha bisogno il paese è auto-prodotta. Solo navi, aerei e, in parte, automobili funzionano con carburante fossile importato.
La centrale geotermica di Hellisheidi è situata ad una ventina di chilometri dalla capitale. Rifornisce di elettricità e acqua calda tutti i quartieri di Reykjavik. "Cinquantacinue euro è in media la spesa mensile di una famiglia per riscaldamento, elettricità ed acqua”, mi dice uno dei responsabili della centrale con una certa soddisfazione mentre mostra un grafico che attesta la rapida crescita di produzione di energia geotermica. Il 70% della corrente, però, è generato dal settore idro-elettrico. L’enorme potenziale energetico del paese è solo in parte sfruttato. L’abbondanza di elettricità a buon mercato ha attirato un settore industriale altamente energivoro, come quello dell’alluminio, che assorbe ormai il 90% dell’energia elettrica generata. Grandi navi affollano ogni giorno i porti islandesi trasportando bauxite in arrivo da ogni parte del globo per poi ripartire con il prezioso metallo estratto. Alcune compagnie europee hanno anche prodotto uno studio per verificare la convenienza di un cavo sottomarino verso le coste del vecchio continente per esportare la corrente in eccesso. Per le nostre asfittiche economie perennemente affamate di energia sarebbe come manna che cade dal cielo o, meglio, dall’oceano.
Poco oltre la centrale, sulla faglia tettonica principale, si trova il parco nazionale di Thigvellir, dove nel 930 si riunì all’aperto il primo parlamento del paese che gli islandesi rivendicano con orgoglio come il primo al mondo. Quello nuovo si trova a ridosso della piazza principale della capitale, ospitato in una modesta palazzina priva di qualsiasi dispositivo di sicurezza che basta e avanza per i 63 deputati di oggi. In una sala attigua compaiono i nomi degli antichi membri dell’assemblea. Non occorrono particolari ricerche per ricostruire l’albero genealogico delle famiglie dell’isola. Contrariamente al resto d’Europa qui resiste ancora il patronimico o, a scelta, il matronimico. "Son” o "dottir”, figlio o figlia, è il suffisso del nome del padre o della madre che accompagna il nome di battesimo di ogni cittadino islandese. Può così succedere che i membri di una stessa famiglia con genitori e due figli abbiano quattro "cognomi” differenti. Situazione normale sull’isola, un po’ complicata, però, da spiegare al momento della registrazione in un qualsiasi hotel di un altro paese, con l’addetto alla reception che rischia una crisi di nervi.

Europa sì, Europa no. Partiti, associazioni, gruppi spontanei e media si stanno già posizionando in vista del grande scontro che fra non molto porterà il paese al referendum sull’adesione. È paradossale, però, che gli oppositori invochino come argomento principale la minaccia alla sovranità nazionale quando, di fatto, ­l’Islanda ha già ceduto all’Unione europea la maggior parte delle sue competenze in campo economico, commerciale e ambientale applicando passivamente il diritto comunitario. Lo stesso si può dire per quanto riguarda giustizia e libertà pubbliche visto che l’isola fa parte dello spazio Schengen che garantisce la libera circolazione dei cittadini senza i controlli alle frontiere. L’immigrazione clandestina, per ovvie ragioni, è praticamente impossibile e, d’altronde, anche volendo non tutti sarebbero in grado di godersi un’estate con temperature prossime agli zero gradi. Bruxelles decide e Reykjavik obbedisce, salvo la pesca e poche altre cose. L’ingresso dell’Islanda non comporterebbe particolari oneri per l’Unione ma consentirebbe, invece, al governo dell’isola di prendere attivamente parte a tutti i processi decisionali che la riguardano direttamente. Gli islandesi, però, più che alla testa, sembrano oggi dare retta al cuore infischiandosene delle contraddizioni. D’altronde il paese non ha un esercito, ma fa parte della Nato e nessuno sembra essere imbarazzato o sorpreso dell’evidente incongruenza. Ed è stata la pancia che ha prevalso nelle consultazioni referendarie del marzo 2010 e aprile 2011, quando si è trattato di decidere se confermare o meno gli schemi di rimborso dei risparmi degli sprovveduti correntisti britannici e olandesi svaniti con il collasso delle banche del paese. Con una schiacciante maggioranza che ha ribaltato il voto del parlamento, il popolo islandese ha respinto gli accordi negoziati dal governo per porre rimedio all’evidente discriminazione che nel 2008 aveva consentito solo agli "affezionati” clienti locali di recuperare i propri crediti disattendendo gli obblighi internazionali che impongono la parità di trattamento per tutti i cittadini europei. Sarà adesso l’organo di arbitrato dell’Efta a dirimere la questione con la quasi certa condanna dell’Islanda.
È in un elegante e affollato ristorante del centro di Reykjavik arredato con design moderno che si consuma la cena ufficiale con i deputati islandesi. Il menù, ovviamente, è a base di pesce con una eccezione. L’occhio del veterinario mi fa insospettire del colore e dell’aspetto della carne che mi passa davanti. Chiedo conferma a chi si trova al mio fianco che annuisce. È carne di balena. Declino cortesemente il piatto così come fa Judith Sargentini, l’eurodeputata olandese che accompagno. È dal 2003 che l’Islanda ha ripreso la caccia ai cetacei in violazione della moratoria internazionale in vigore. Grazie agli emendamenti che ho suggerito, nelle sue ultime risoluzioni sulle relazioni con l’isola il parlamento europeo ha condannato questa pratica richiamando l’Islanda ad adeguarsi alle direttive comunitarie. Orgoglio identitario o provocazione, si rischia l’incidente diplomatico. I funzionari del parlamento islandese si scuseranno poco dopo per l’inconveniente. Non c’è alcun dubbio che, se potessero, le balene voterebbero sì all’Europa.