La lacerazione dell’ex-Jugoslavia è nata in Kosovo e in Kosovo è destinata a terminare. Così avevano pronosticato dall’inizio i nostri amici riuniti dal 1991 nel Verona Forum, per la pace e riconciliazione nell’ex-Jugoslavia, che dal 1993 ha poi cominciato a chiedere, inascoltato, un intervento di polizia internazionale che ridesse spazio alle parole. Se gli accordi di Dayton -secondo il sindaco della Tuzla interetnica, Selim Beslagic- avessero codificato lo smembramento della Bosnia in tre parti, legittimando quindi un rapporto automatico tra composizione etnica e appartenenza statuale, il Kosovo non avrebbe avuto difficoltà ad ottenere l’indipendenza.
E’ solo per merito dell’impegno straordinario di interposizione militare svolto prevalentemente dai paesi europei e dagli Usa, se in Bosnia rimangono ancora aperte speranze di riconciliazione e di ritorno dei profughi alle terre da cui erano stati scacciati. Assieme all’istituzione del Tribunale Internazionale e all’istituzione dei Corpi civili di pace, questi sono alcuni embrioni -ancor deboli- di un nuovo diritto internazionale e segnali di un ripensamento del ruolo delle diplomazie abituate a risolvere i conflitti (ma anche a incancrenirli) tracciando delle linee nette di separazione. Tutte le deliberazioni di Onu, Nato, Osce, Gruppi di contatto approvate in quest’ultimo anno si muovevano in questa direzione: forte autonomia per il Kosovo, ritiro delle truppe serbe, disarmo dell’Uck.
E’ una posizione questa che si scontra sia con il progetto etnico di una grande Albania, sia con quello di una grande Serbia, che Milosevic ha perseguito dal lontano 1986, portando la sua popolazione in un vicolo cieco seminato di aggressioni. Non si tratta quindi di distinguere buoni da cattivi, ma di constatare che la politica di Milosevic ha a disposizione, per la sfortuna di quel grande paese e anche dei kosovari, un potenziale bellico e di milizie irregolari che dopo aver trasformato
Sarajevo in un campo di concentramento, può permettersi di sradicare dalle sue case, deportare ed espellere, una popolazione intera. Noi sappiamo del terrore che prende gli abitanti della Belgrado bombardata e vediamo la disperazione dei profughi arrivati in Albania e in Macedonia. Di ciò che è successo e succede in Kosovo sapremo solo alla fine di questa tragedia, quando giornalisti indipendenti saranno forse in grado di raccogliere e verificare racconti e testimonianze. Nel frattempo la fa da padrona la guerra psicologica condotta da una parte e dall’altra attraverso informazione e disinformazione. Ai grandi ideali di "libertà, fraternità, uguaglianza" che abbiamo ereditato dalla rivoluzione francese, nell’era televisiva bisognerebbe aggiungere anche l’utopia della "verità".
Ma allora come orientarsi, in questa, che è diventata una guerra vera, senza farsi paralizzare dalla sua atrocità? C’è che si accontenta di esibire con superbia la sua coerenza ideologica con una militanza pacifista, iniziata con la guerra del Vietnam, proseguita con l’opposizione all’installazione dei missili nucleari in Europa e alle iniziative imperiali americane e russe nell’epoca della guerra fredda. Ma all’idea forte del "mai più Hiroshima", poi divenuto "mai più guerra", con l’assedio di Sarajevo, la strage di Srebrenica, i genocidi consumati in Cambogia e in Rwanda, si è fatta sempre più forte la convinzione dell’esistenza di un’ulteriore priorità, a volte in contrasto con la prima: mai più Auschwitz!
E non è un caso che siano apertamente o problematicamente favorevoli all’intervento Nato tutti coloro che hanno, una volta almeno, sperimentato nella loro vita cosa vuol dire essere in mano inermi a un potere armato pieno e assoluto. E questo vale per i gruppi minoritari, che per lo meno hanno il conforto di sentirsi parte di un destino comune, ma vale sempre di più anche per donne e uomini che in Algeria o in Afghanistan, in Arabia Saudita o in Cina, rivendicano semplicemente la libertà di scegliere, da persone libere, una lingua, una cultura, una religione.
E’ giusto chiedere ai parlamenti e ai governi che facciano ogni tentativo perché la politica, oscurata dal fragore delle bombe, rimanga sempre al primo posto. Ma anche che i movimenti di pace assumano con coraggio, nel loro patrimonio etico, la condivisione della difficile e a volte drammatica responsabilità decisionale che le democrazie affidano alle istituzioni e a coloro che le dirigono.
16 aprile 1999, Edi Rabini