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È uscito il n. 283 di Una città

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Dedichiamo gran parte del numero all’Ucraina. Sappiamo che la nostra posizione intransigente suscita perplessità in alcuni dei nostri lettori. Un’abbonata ci ha tacciato di bellicismo e ha disdetto l’abbonamento. Ma la nostra è una posizione non di principio, ma molto pragmatica. Li invitiamo a leggere, a pagina 46, l’articolo di Macdonald che, dopo essere stato pacifista durante la Seconda guerra mondiale, cambiò idea. Ecco le sue argomentazioni, che sono le nostre: “Per quanto riguarda il pacifismo, questo tende a presupporre un certo grado di similitudine etica col nemico, qualcosa che sta nelle sue ragioni e cui ci si possa appellare -o perlomeno, qualcosa che appartiene alle sue tradizioni. Gandhi trovò questo nei britannici, e così il suo movimento di resistenza passiva potè avere successo, dal momento che c’erano alcune misure repressive, come il giustiziare lui e i suoi collaboratori di spicco, cui i britannici non potevano ricorrere per via del loro codice morale tradizionale, che è quello comune alla civiltà occidentale. Ma i comunisti sovietici non hanno una tale inibizione, come non l’avevano i nazisti. Pertanto, concludo che il pacifismo non ha alcuna possibilità ragionevole di risultare efficace contro un nemico totalitario”. L’amico Pietro Adamo ci segnala il racconto fantascientifico Il terrore e la fede dello storico Harry Turtledove, in cui si immagina che Hitler abbia vinto la Seconda guerra mondiale, conquistato anche l’Inghilterra e mandato i suoi emissari e le sue truppe a prendere possesso dell’India. Qui Gandhi e Nehru discutono di cosa fare, il primo crede che con la nonviolenza si ripeterà la vittoria ottenuta coi britannici, Nehru è preoccupato perché vede la differenza fra un regime coloniale ma liberale nella madrepatria e un regime totalitario. Gandhi però non cede, adotterà di nuovo il metodo nonviolento e il comandante nazista, pure colpito dalle argomentazioni dell’incredibile personaggio indiano, al momento di passare ai fatti, ordinerà alle autoblinde di sparare sulla folla che è scesa in strada per manifestare disarmata. E sarà un massacro. È incredibile come, soprattutto a sinistra, non si tenga in alcun conto che l’Ucraina ha di fronte una potenza fascista che non ha un’opinione pubblica con cui dover fare i conti e quindi non ha scrupoli a condurre una guerra terroristica contro i civili. Che senso ha allora parlare di trattativa? E, nel caso, quale fiducia potremmo avere che gli impegni verrebbero mantenuti? Non abbiamo visto cosa successe a Srebrenica? E che senso ha proporre di smettere di dare armi agli ucraini, se non quello di costringerli alla resa? E in questo caso, di per sé orribile, quale sarebbe la riduzione del danno? Ripetiamo quello che tutti sanno: la prepotenza che vince è altamente contagiosa. Di Ucraina e Russia ci parlano Oxana Pachlovsha, Antonella Salomoni, Taras Bilous, Bartolo Gariglio, e poi da Meduza, quotidiano online in lingua russa con sede a Riga, Lettonia, l’intervista a Maxim Grebenyuk, e quelle a Tatyana Yefremonko e Yulia Tsyvova, madri di soldati russi “dispersi”.
Due grandi persone, che ci onoravano della loro amicizia, sono mancate. Commemoriamo Piergiorgio Bellocchio con le parole del suo amico Alfonso Berardinelli e Chiara Frugoni con un nostro ricordo e ripubblicando una delle interviste date alla nostra rivista, quella in cui racconta del rapporto con un grande padre, Arsenio Frugoni, scomparso prematuramente, severo ed esigentissimo, ma che alla fine sarebbe stato orgoglioso della figlia.
Claudio Giunta ci parla di scuola. Per l’altra tradizione pubblichiamo il prologo di Massimo Teodori al libro, scritto con Angelo Panebianco, La parabola della Repubblica, in cui ci si chiede: Perché gli assassinii di Gobetti, Amendola, Rosselli e Matteotti?
Poi le lettere dal Marocco di Emanuele Maspoli, e dall’Inghilterra di Belona Greenwood; l’intervento di Massimo Tirelli sul salario minimo e quello di Matteo Lo Presti che ci parla di Pasolini.
La visita” è alla tomba di Vysotsky, il Bob Dylan russo, perseguitato in vita e che in morte fu accompagnato alla tomba da un milione di russi.

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È uscito il n. 282 di Una città

Dedichiamo l’intero numero al popolo ucraino che sta resistendo eroicamente alla superpotenza fascista che ha invaso il suo paese. Lo dedichiamo alle vittime civili di una barbarie che non rispetta alcuna regola internazionale, alcun codice d’onore. Ci sentiamo impotenti e ci si chiede se e per quanto le nazioni democratiche potranno continuare ad assistere allo scempio senza intervenire. Per il resto nulla sarà più come prima e sarà inevitabile prendere atto che il fascismo impera in mezzo mondo e che l’idea che il libero commercio possa diffondere la libertà è solo un’illusione interessata e miope. Le sanzioni diventeranno la regola e la solidarietà dovrà accompagnarsi ai sacrifici. E se la democrazia non si può certo esportare, la si potrà “predicare” dando l’esempio, facendo vedere quanto può essere desiderabile la libertà e la possibilità, in essa, della giustizia. Al fondo il grande punto debole dei sistemi totalitari sono i loro popoli. Infine si sta chiudendo definitivamente, dopo centocinquanta anni, la disastrosa parabola del marxismo e si dovrà ripartire dal grande ideale ottocentesco della democrazia universale e, certo, della pace fra i popoli e di questi con gli altri animali e con il resto del creato.

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Sheri Berman denuncia il cosiddetto “campismo”, retaggio della Guerra fredda, fatto proprio da una sinistra che, rifacendosi ai realisti alla Kissinger, accampa il diritto delle potenze ad avere una “sfera d’influenza” e arriva a giustificare i peggiori crimini degli avversari degli Stati Uniti, accantonando così la lotta per la democrazia e i diritti umani. Taras Bilous si chiede perché così tante persone a sinistra abbiano fatto finta di niente davanti all’invasione russa. Ma detestare l’internazionalismo liberista non può portare all’assurdo di una sinistra che fa leva solo sulle contraddizioni interimperialistiche. Jeffrey C. Isaac ci parla del necessario sostegno, anche militare, della Nato a un’Ucraina che deve difendersi dall’invasione ingiusta e brutale e, insieme, della necessaria prudenza nell’evitare una precipitazione possibile in una guerra generale, potenzialmente anche nucleare e si chiede anche perché la sinistra ce l’abbia tanto con la Nato. Francesco Cataluccio ci racconta la storia dell’Ucraina, una storia complicata che inizia ben prima della Russia e che è all’origine della sua nascita, una Russia mai odiata ma che d’ora in poi lo sarà per i prossimi centocinquant’anni, per via dell’idea nefasta, cara a Putin, che dove si parla la stessa lingua è un unico paese. Konstanty Gebert ci descrive una Polonia accogliente, generosa, dove non c’è ormai famiglia che non ospiti qualche profugo ucraino in un clima che ricorda i primi mesi di Solidarnosc e però del rischio che, in assenza di politiche adeguate e di uno Stato efficiente, il clima possa cambiare. Michael Walzer ci parla di persone pacifiche, gente comune, che ha deciso di rischiare la propria vita combattendo per un’Ucraina democratica accogliente e rispettosa dei diritti di tutti i suoi cittadini.
Nelle centrali le foto di Mariupol, la città martire.
Sui temi della guerra e della pace pubblichiamo il carteggio fra Adriano Sofri e Lea Melandri apparso su “Il Foglio” e su “Il Riformista”.
Per “ricordarsi” pubblichiamo stralci dal libro di Anne Applebaum, per Mondadori, che racconta cosa fu lo sterminio per fame dei contadini ucraini perpetrato da Stalin in nome della collettivizzazione forzata della terra. E poi, nelle lettere e interventi, Berardinelli su cosa pensava Umberto Saba dei dittatori e in particolare di Hitler, Zoran Herceg serbo di Bosnia sul paragone fra ciò che sta succedendo in Ucraina e quel che successe a Sarajevo; Belona Greenwood ci parla della gentilezza, che non è affatto debolezza; Wlodek Gorlkorn ci invita a guardare quel che succede dalla scalinata di Odessa, a metterci cioè nei panni dei popoli dell’Est. Infine pubblichiamo un’altra lettera di Andrea Caffi a Prezzolini, sempre sull’Ucraina, scritta “dai corridoi” del distretto militare, presumibilmente sempre nel 1915. Infine “la visita” è alla tomba di Anna Politkovskaja.

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È uscito il n. 281 di Una città

Care amiche, cari amici, è uscito il numero 281 di Una Città.
Qui il sommario completo.  
La copertina è dedicata agli ucraini. Ora sappiamo cosa devono aver provato in tutto il mondo i sostenitori della Repubblica spagnola nel vedere cadere una città dopo l’altra, devastate dall’aviazione nazista e fascista e nel dover assistere ormai impotenti alla soddisfazione dei prepotenti che di lì a poco avrebbero scatenato l’inferno in Europa. Forse non è ancora detto che vada a finire così. Certamente dobbiamo continuare a sostenere i patrioti ucraini in ogni modo e dovremo prolungare le sanzioni contro la Russia sine die, per metterla in ginocchio e convincere il popolo russo a liberarsi del dittatore. L’eroica resistenza ucraina resterà nella storia europea, prima o poi l’Ucraina tornerà libera e i dittatori dovranno rispondere dei loro crimini (il loro amico Milosevic ha finito i suoi giorni in carcere). Forse proprio in questi giorni abbiamo intravisto quel che potrebbe essere finalmente un’Europa unita, libera e forte (e chissà mai che a questa un giorno non possa unirsi la grande Russia del principe Andrej, di Pierre Bezuchov e di Platon Karataev). Uno dei risultati più importanti della resistenza disperata degli ucraini sarà il riarmo della Germania e quindi un rafforzamento decisivo della Nato. Ed è anche un risultato positivo che si sia aperto un fossato fra i paesi fascisti e i paesi democratici. All’Onu ormai resta solo il compito di far vedere cosa pensano gli iscritti, dato che ogni decisione non può superare l’ostacolo del veto delle due potenze fasciste. Bisogna quindi che i legami fra i paesi democratici si rafforzino e diventino permanenti e che fra le popolazioni si diffonda quel nuovo internazionalismo democratico che ora stiamo vedendo all’opera per sostenere il popolo ucraino.La copertina è dedicata agli ucraini. Ora sappiamo cosa devono aver provato in tutto il mondo i sostenitori della Repubblica spagnola nel vedere cadere una città dopo l’altra, devastate dall’aviazione nazista e fascista e nel dover assistere ormai impotenti alla soddisfazione dei prepotenti che di lì a poco avrebbero scatenato l’inferno in Europa. Forse non è ancora detto che vada a finire così. Certamente dobbiamo continuare a sostenere i patrioti ucraini in ogni modo e dovremo prolungare le sanzioni contro la Russia sine die, per metterla in ginocchio e convincere il popolo russo a liberarsi del dittatore. L’eroica resistenza ucraina resterà nella storia europea, prima o poi l’Ucraina tornerà libera e i dittatori dovranno rispondere dei loro crimini (il loro amico Milosevic ha finito i suoi giorni in carcere). Forse proprio in questi giorni abbiamo intravisto quel che potrebbe essere finalmente un’Europa unita, libera e forte (e chissà mai che a questa un giorno non possa unirsi la grande Russia del principe Andrej, di Pierre Bezuchov e di Platon Karataev). Uno dei risultati più importanti della resistenza disperata degli ucraini sarà il riarmo della Germania e quindi un rafforzamento decisivo della Nato. Ed è anche un risultato positivo che si sia aperto un fossato fra i paesi fascisti e i paesi democratici. All’Onu ormai resta solo il compito di far vedere cosa pensano gli iscritti, dato che ogni decisione non può superare l’ostacolo del veto delle due potenze fasciste. Bisogna quindi che i legami fra i paesi democratici si rafforzino e diventino permanenti e che fra le popolazioni si diffonda quel nuovo internazionalismo democratico che ora stiamo vedendo all’opera per sostenere il popolo ucraino.

Detto questo dovremo anche discutere con chi, in buona fede, crede che la non-violenza sia un principio assoluto e allo stesso tempo un modo per risolvere i conflitti. La non-violenza, certo, può essere una forma di lotta straordinaria, a volte anche efficace, ma non certo indolore. Ma si può credere ragionevolmente che potrebbe fermare un dittatore come Putin? Avrebbe potuto fermare un dittatore come Hitler, capace di scatenare in Europa una caccia mortale agli ebrei e ai loro bambini, o come Stalin, capace, negli anni Trenta, di usare la carestia come un’arma per piegare gli ucraini, provocando circa quattro milioni di morti? Se poi si vuol dire che, in caso di assoluta disparità di forze, ci si può sottomettere all’aggressore per salvare vite umane, questa è una scelta che spetta solo e soltanto all’aggredito (ma ricordiamo cosa successe quando gli abitanti di Srebrenica pattuirono la resa in cambio di un salvacondotto. A promettere c’erano degli amici di Putin).
Quindi il principio, nei rapporti fra gli stati e fra i popoli, così come fra le persone, non può essere quello della non-violenza, ma piuttosto quello della non-prepotenza. La legittima difesa e il pronto soccorso per chi è aggredito sono i primi, dei diritti e dei doveri umani (la citazione del premio Nobel per la pace, Ernesto Moneta, riportata qui sopra, è esemplare).

In apertura una bella lettera di Andrea Caffi a Prezzolini -del 1915!-, in cui si spiega perché gli ucraini sono un popolo e l’Ucraina una nazione. Poi Michael Walzer, in un’intervista fatta due giorni prima dell’invasione, prevede che, nel caso, dovranno essere le sanzioni durissime a colpire la Russia e che alla fine, seppure a un alto prezzo, l’Ucraina vincerà. Esprime, inoltre, la speranza che si formino, come in Spagna nel ’36, le brigate internazionali.
Per il resto pubblichiamo la terza e ultima puntata degli appunti sulla politica antitotalitaria in Italia, di Massimo Teodori; poi parliamo di scuola, con Cesare Moreno, della salute dei ragazzi, con Riccardo Dalle Grave, della moralità in filosofia, con Luca Fonnesu; poi di Sombart con Alfonso Berardinelli, del perché, secondo alcuni, Helen Mirren non potrebbe impersonare Golda Meir, con Vicky Franzinetti, della “chiacchiera” tanto odiata da papa Francesco, con Matteo Lo Presti, e d’altro ancora. Pubblichiamo poi una lettera di Clara Lollini Giua, di ritorno dalla Spagna dove il figlio Renzo aveva perso la vita combattendo nelle brigate internazionali; Irina Lazarevna Scerbakova ci parla di Memorial, la rete di centri della memoria dei gulag sovietici, che Putin ha deciso di smantellare, per non denigrare la storia della Russia. E poi la storia di Alice Rubino, i danni collaterali dell'e-commerce di Chiara Mazzoleni, la lettera dal Marocco di Emanuele Maspoli. Infine la lettera di Umberto Cini sulle bandiere alle manifestazioni. 

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È uscito il n. 280 di Una città

Care amiche, cari amici, è uscito il numero 280 di Una Città. Qui il sommario completo.
In copertina il monumento grandioso di Astana, oggi Nur-Sultan, una capitale nata dal nulla e fatto costruire da uno dei dittatori postsovietici, a testimonianza della mania di grandezza e della smania di ricchezza che devasta il pianeta (e di cui sono testimonianza, nelle pagine 16 e 17, anche le navi colossali che solcano Venezia).
A fianco facciamo gli auguri a Khalida Toumi, la grande femminista algerina, che verrà processata, dopo alcuni anni di carcere, per accuse strumentali. Sulla stampa algerina è apparso un lungo articolo che ne ricorda la tenace lotta per i diritti delle donne e per la democratizzazione del suo paese.
Con l’intervento di Bronner iniziamo un dibattito sulla democrazia americana e, incredibile ma purtroppo vero, sui rischi di involuzione autoritaria che corre; questo in un momento in cui le dittature guadagnano terreno ovunque e più che mai, quindi, ci sarebbe bisogno di un nuovo internazionalismo democratico. Della situazione in Kazakistan e in Ucraina e dei venti di guerra in Europa, ci parla Paolo Bergamaschi.
Con Livia Turco affrontiamo un problema che angoscia tantissime famiglie, quello della non autosufficienza di tanti anziani e di una legge attesa da anni; nella recente legge di bilancio, attraverso i Leps, livelli essenziali, si puntella qualche principio, come la scelta della domiciliarità, che non è soltanto il poter stare a casa, ma un progetto integrato fra le attività della vita quotidiana, compresa la compagnia, il non essere soli, fino al disbrigo delle pratiche burocratiche e all’assistenza sanitaria vera e propria.
Nelle pagine al centro, in via eccezionale riproponiamo l’inserto dell’Altra tradizione. Non potevamo ignorare un avvenimento che aspettavamo da anni e a cui amici come Gino Bianco e Wojciech Karpinski, e ovviamente Miriam Rosenthal Chiaromonte, avevano dedicato l’impegno di una vita: quello di far conoscere in Italia l’opera e la vita di un intellettuale militante come Nicola Chiaromonte, famoso in Polonia e negli Stati Uniti e pressoché sconosciuto in Italia. Il motivo lo conosciamo: in Italia era proibito essere antitotalitari e di sinistra contemporaneamente. L’uscita del Meridiano Mondadori con una raccolta dì saggi sancisce la fine di un boicottaggio vergognoso. Siamo orgogliosi di avere dato una mano a Gino Bianco, a Wojciech Karpinski e a Miriam Chiaromonte in questa dedizione, i cui frutti, purtroppo, nessuno di loro ha potuto raccogliere. Nell’inserto ripubblichiamo l’intervento “Una conversazione che non è mai finita”, che Karpinski tenne al convegno dedicato a Chiaromonte organizzato da “Una città” nel lontano 2002. Ricordiamo i partecipanti, da Enzo Golino, che purtroppo non c’è più, a Irena Grudzińska Gross che in fuga dalla Polonia trovò, come tanti altri polacchi, rifugio in via Ofanto; a Ugo Berti, il primo a pubblicare per il Mulino testi di Chiaromonte; a Pietro Adamo, Gregory Sumner, Marino Sinibaldi. Ricordiamo la soddisfazione di Gino Bianco per il fatto che, con quel convegno, avevamo scongiurato un tentativo della destra di “impossessarsi” di Chiaromonte. Pubblichiamo inoltre la seconda puntata degli “appunti sull’antitotalitarismo italiano” di Massimo Teodori.
Poi riprendiamo il dibattito su scuola e uguaglianza a partire dalle considerazioni di Paola Mastrocola, autrice di un libro molto discusso sui danni della cosiddetta “scuola progressista”; infine Giovanni Tassani ci racconta le vicende di un gruppo di cattolici che speravano in un rinnovamento radicale del Partito comunista, che non arrivò mai; “Cultura e realtà” la rivista fondata da Felice Balbo e Cesare Pavese che non andò oltre i tre numeri. Infine, Alfonso Berardinelli ci parla di Thomas Mann, Federica Cornali, di neodemos, del tema dell’eredità, Wlodek Goldkorn della Giornata della memoria, poi l’invettiva di Vicky Franzinetti contro gli stupratori e le lettere di Belona Greenwood dall’Inghilterra e di Emanuele Maspoli dal Marocco.

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È uscito il n. 279 di Una città

Care amiche, cari amici,
tanti auguri di buon anno dalla redazione di Una città.

Vi ricordiamo che è in corso la campagna abbonamenti e che è possibile acquistare il cd "Libertà e manilnconia".

E' uscito il numero 279 di Una Città. Qui il sommario completo.

La copertina è dedicata a tutti coloro che vivono in ristrettezze.
In questo numero diamo l’addio a un carissimo amico, Giorgio Bacchin, uno dei fondatori della rivista “Una città” e, in seguito, della Fondazione Alfred Lewin. Ricoverato e operato d’urgenza per rottura dell’aorta, era uscito dalla terapia intensiva, sembrava fuori pericolo, ma dopo un mese ha avuto una ricaduta. Aveva 65 anni. L’addio alle pagine 46-47.

Questo numero ha cinquantasei pagine e, a mo’ di inserto, ne dedichiamo sedici all’Altra tradizione, un chiodo fisso del nostro impegno fin dagli inizi. In tanti, nel tempo, ci hanno chiesto che cosa intendessimo con questa espressione. La risposta è molto semplice: è la tradizione che annovera tutti coloro che, nel passato, si sono battuti per la giustizia sociale difendendo, contemporaneamente e, a volte, a costo della vita, la libertà di ognuno e la democrazia; oppositori, quindi, di ogni forma di dittatura e totalitarismo, nero o rosso che fosse. È una tradizione dimenticata, a suo tempo criminalizzata come “serva dei padroni”. Il risultato è paradossale: tanti che sono stati comunisti, e che oggi fanno fatica anche a dichiararsi socialdemocratici, pur di non rinnegare la loro storia, pur di non ammettere che avevano avuto ragione gli altri, del passato hanno fatto tabula rasa, rendendolo impraticabile (per giustificare e chiudere, la frase d’uso è: “C’era la Guerra fredda”, dopodiché, certo, non resta che “bella ciao”). Questo, oltre a impedire comparazioni, discussioni già affrontate allora ma ancora attuali, analisi degli errori e delle loro cause, comprensione di come, anche con le migliori intenzioni, si possa diventare feroci criminali, tutti esercizi, cioè, di intelligenza, priva i giovani di antenati e padri da onorare, di esempi da seguire, di una genealogia di cui andare orgogliosi.
In questo numero pubblichiamo gli interventi di Massimo Teodori, Sergio Soave e Walter Galbusera.

La rivista si apre con un grido d’allarme dalla Bosnia nella lettera di Irfanka Pasagic. Segue un’intervista a Michele Salvati su cui tutti si dovrebbero confrontare; poi abbiamo la storia di come si vive e si lavora agli ordini dei caporali raccontata da Marco Omizzolo; Bianca Bottero, Francesca Cognetti e Anna Delera ci parlano di una buona pratica in un quartiere di Milano; dalla Tunisia, purtroppo, Bochra Bel Haj Hmida non ci porta buone notizie; una bella storia di una rivista vicina al sindacato, dal Veneto cattolico, fondata, tra gli altri, da Maurizio Carbognin; poi Alfonso Berardinelli ci parla di Giovanni Gentile, Vicky Franzinetti ragiona sul processo di vittimizzazione degli oppressi; poi Emanuele Maspoli dal Marocco, Belona Greenwood dall’Inghilterra; infine Wlodek Goldkorn ci spiega per quale motivo è grave chiedergli perché mai non ama la neve della sua Polonia.

È uscito il n. 278 di Una città

Care amiche, cari amici,
è uscito il numero 278 di Una Città.

Qui il sommario completo.
In copertina un frammento di una vecchia foto degli anni Cinquanta. Siamo a Berlino all’assemblea fondativa del Congresso per la libertà della cultura, nato per associare scrittori, intellettuali e artisti di tutto il mondo in una lotta per la difesa del “libero pensiero”, contro ogni tipo di dittatura e di totalitarismo. In questo numero pubblichiamo la prefazione di Alessandro Giacone al libro di Roselyne Chenu (tradotto ed edito da “Una città”) che del Congresso fu una delle principali organizzatrici. E' una cronaca di tutto quello che fecero in venticinque anni, ma basterebbe leggere l’indice dei nomi per restare impressionati e per far apparire lo “scandalo” del 1967, la rivelazione che parte dei finanziamenti venivano dalla Cia attraverso alcune fondazioni americane, una cosa del tutto insignificante. Fra l’altro pare che, fra le centinaia di associati, solo due persone (brave e stimatissime, del resto) sapessero della cosa, ma la notizia fu sufficiente, tuttavia, a scatenare una campagna denigratoria da parte dei partiti comunisti europei e dei loro compagni di strada, che non si erano mai fatti scrupolo, e non se ne faranno per altri decenni, di ricevere finanziamenti da Stalin e dai suoi successori. Ma lo stigma è rimasto fin quasi ai giorni nostri. Del resto si sa: solo la storia ha reso l’onore dovuto a chi, in tempi così bui, si impegnò per la libertà degli altri. Viene da pensare a quanto  servirebbe oggi un simile impegno in un mondo che per metà sta sotto dittatura, non importa di che colore. Non passa giorno che non arrivino notizie di persone, intellettuali, artisti, oppositori, giovani donne desiderose di studiare, costrette a tacere, sepolte in carcere, torturate, spesso uccise. Sì, ci vorrebbe un altro Congresso.


Dei pericoli che corrono gli Stati Uniti e della minaccia Trump ci parla Michael Kazin. Cristina Tajani ci racconta dell’esperienza di Milano con il progetto di riqualificazione dei mercati comunali e la scuola dei quartieri, della figura dell’innovatore sociale, ma soprattutto dell’importanza di guardare ai cittadini come portatori anche di soluzioni oltre che di problemi. Uno speciale sulla scuola è introdotto da una lunga conversazione tra la pedagoga Clotilde Pontecorvo e Anna Lona, già maestra, sull’inadeguatezza dell’attuale sistema di formazione degli insegnanti delle secondarie, fondata sull’idea che basti conoscere una materia per saperla insegnare. Seguono gli interventi di Vittoria Gallina, Nicoletta Lanciano e Andrea Gavosto. La storia del gruppo scout delle “Aquile randagie”, che si ribellò al fascismo, viene raccontata da Carlo Valentini. Continua la serie delle interviste sulla situazione delle carceri in Italia con Carmelo Cantone. Poi l’intervista a Diego Marconi sull’insegnamento della filosofia. Nella scena del parto medievale, affollata di donne, con i mariti fuori a pregare che sia un maschio, centrale è la figura dell’ostetrica. Alessandra Foscati, attraverso lo studio delle storie dei miracoli, dei testi medici ma anche giuridici, ci racconta, tra le altre cose, la vicenda incredibile del parto cesareo.E poi gli interventi di Berardinelli, Damiani, Maspoli, Livi Bacci, Greenwood, Maria Sala.

La visita è alla tomba di Ursula Hirschman.

È uscito il n. 277 di Una città

Care amiche, cari amici,
è uscito il numero 277 di Una Città.
Qui il sommario completo.
La copertina è dedicata alle vittime dell’attentato dell’11 settembre. La pagina a fianco alle donne afghane. Cos’è successo? Se ne discuterà a lungo. Noi non vorremmo dare la croce a Biden. Ci chiediamo: ci può essere libertà sotto protettorato? Forse temporaneamente, ma poi? Anche a livello internazionale dovrebbe valere il principio secondo cui l’aiuto deve servire a metterti in grado di far da solo, non a cronicizzare la debolezza. In questo senso l’Afghanistan è un fallimento, certo, ma poteva non esserlo? Dall’assedio di Sarajevo abbiamo imparato che di fronte a una persecuzione si deve intervenire e dalla difesa del Kosovo, a usare, se necessario, il massimo della forza col minimo di perdite civili. Ma era questo il caso dell’Afghanistan? Biden ha minacciato, nel caso di attacco ai soldati americani durante la ritirata, una “risposta devastante”. Ecco, forse avrebbe dovuto minacciarla nel caso che nei prossimi mesi, e anni, i talebani proibiscano alle ragazze afghane l’accesso alle scuole. La domanda, però, è se siamo ancora capaci di usare la forza per ciò che è giusto. Dopo gli attentati in Europa siamo andati in corteo urlando: “Non ci cambieranno”. È andata così? Sembra che lo “spirito di Monaco” si sia impossessato dell’Occidente: la pace, e i commerci, sono il bene supremo da salvare a ogni costo, compreso quello di fare amicizia e affari con dittatori sanguinari.
continua...

Del ritiro dall'Afghanistan ci parla Stephen Eric Bronner.
Tiziana Dal Pra ci racconta dell’impegno contro i matrimoni combinati e del problema che hanno tanti, a sinistra, a contestare le tradizioni religiose patriarcali dei paesi d’origine dei nostri immigrati.
Luciano Benadusi e Orazio Giancola ci parlano della rincorsa della scuola per combattare le disuguaglianze, dei rischi sottesi ai concetti di merito ed eccellenza e del dibattito sorto sulle competenze e attorno alla domanda: a cosa serve la scuola?
Davide Lerner e Manuela Consonni ci aggiornano sullo stato dei rapporti fra israeliani e palestinesi. 
Su un controverso progetto dell’Eni per catturare l'anidride carbonica l'intervista è a Marina Forti.
Di carcere, cultura e libertà ci parla Edoardo Albinati.
E poi gli interventi di Berardinelli, Pasagic, Lo Presti, Greenwood, Livi Bacci, Tirelli.